#narrativa kafkiana
Explore tagged Tumblr posts
pier-carlo-universe · 1 month ago
Text
AscoltAle presenta "Racconti Disumani": il teatro di Kafka con Giorgio Pasotti
Il grande teatro arriva ad Alessandria con Racconti Disumani, lo spettacolo teatrale in programma il 1° febbraio 2025 alle ore 21:00 al Teatro Alessandrino. Un evento imperdibile che vede protagonista Giorgio Pasotti, diretto da Alessandro Gassman, in un doppio adattamento tratto dalle opere di Franz Kafka: Una relazione per l’Accademia e La tana. Lo spettacolo racconta storie di umanità…
0 notes
timriva-blog · 6 months ago
Text
El cine y lo kafkiano
La narrativa de Kafka ha inspirado directa o indirectamente un conjunto de películas que solo en ocasiones logran traducir su universo Escrito por Carlos Bonfil Un lugar común utilizado con desparpajo y franqueza por los cinéfilos de todo el mundo: “Es una película kafkiana”. La cinta en cuestión puede ser una alegoría política con múltiples meandros narrativos, como Syriana (2005), de Stephen…
0 notes
eloygcoton · 1 year ago
Text
Violencia contra escritura
¿Qué hacer? ¿Continuar escribiendo novelas negras? ¿El análisis de la delincuencia, el estudio de la personalidad psicopática, o la narrativa de hechos violentos, desterraría de una vez y por todas, esta enfermedad incurable?
Violencia contra escritura es una batalla silenciosa que se traba ahora mismo en mi espíritu. La violencia se ha apoderado como nunca antes de esta tierra. Contra la necesidad de contar a pesar de los embates de la Vida, ahora aparece dando golpes a la imaginación más fértil, esa violencia. Violencia y escritura se vuelven, en una metamorfosis kafkiana, en la propia vida, la singular y extraña…
Tumblr media
View On WordPress
0 notes
levysoft · 4 years ago
Link
Ci sono due grandi fraintendimenti, a proposito di David Foster Wallace. Il primo è riferirsi al suo suicidio, avvenuto il 12 settembre 2008, come orizzonte inevitabile della sua esperienza umana e artistica. Il secondo riguarda la sua eredità di scrittore, esposta a troppo semplici etichette: il postmoderno, per un genere che in realtà evolve di opera in opera, e l’arguzia, come elemento principale di testi molto più complessi e – per la verità – feroci (ad eccezione, per fortuna, del suo mastodontico capolavoro del 1996, Infinite Jest, la cui mole non può fisicamente sopportare etichette troppo strette).
Il giovane DFW: antidepressivi e filosofia analitica
Nato nel 1962, David Wallace – Foster è il cognome della madre, che aggiungerà solo in seguito – è significativamente influenzato dagli interessi culturali dei genitori, entrambi professori. Si appassiona infatti ben presto alle stesse materie di ricerca paterne e persegue una carriera universitaria che riesce a essere proficua e veloce nonostante un ricovero in una clinica psichiatrica e la forte depressione di cui lo scrittore ha sempre sofferto.
Tuttavia pensare che fossero gli antidepressivi a dare a Wallace la carica dirompente delle sue riflessioni teoriche e dei suoi scritti non è esatto. Nella mente di David Foster Wallace nozioni di filosofia analitica, matematica e letteratura si incastravano alla perfezione e andavano a formare complesse cattedrali di pensiero. Si potrebbe dire allora che gli antidepressivi, forse, più che influire attivamente sulla scrittura di Wallace, bloccassero le forze interiori che gli avrebbero impedito di scrivere: non doping, ma una sorta di diga mentale.
Basti pensare che il suo acclamato romanzo d’esordio, La scopa del sistema, è stato pubblicato nel 1987 quando Wallace aveva appena venticinque anni. Il romanzo è imperniato sulla filosofia di Wittgenstein, materia di studio del padre di Wallace, e presenta – quello sì –  profonde influenze postmoderne che nel corso delle opere successive andranno via via scemando.
David Foster Wallace: un genio d’altri tempi
Si può a ragione sostenere che David Foster Wallace fosse un genio. Non un genio nel senso abusato a cui ci ha abituato internet, bensì un genio in un senso più classico e quasi “antico” del termine. David Foster Wallace era un genio come poteva esserlo il già citato Wittgenstein, un’agitata meteora che fa e disfa pensieri e in cui la profondità morale si unisce a una solidissima impalcatura teorica.
Le sue interviste – e per nostra fortuna se ne possono trovare molte su internet – sono strabilianti, anche da un punto di vista comunicativo. Sempre in bilico tra il disagio di chi vorrebbe essere altrove e l’agio di chi padroneggia alla perfezione un argomento, Wallace risponde un attimo dopo la conclusione della domanda, senza esitare mai, in modo fluviale e precisissimo. Parla di sociologia, di letteratura e di matematica (argomento che conosceva a fondo, come dimostrato nel saggio sull’infinito Tutto, e di più. Storia compatta dell’infinito, del 2003), con una semplicità estrema, sia nella scelta della sintassi sia nella costruzione delle frasi.
Una parabola letteraria e umana
Che si leggano raccolte di racconti come La ragazza dai capelli strani, del 1990, o i saggi di Considera l’aragosta, del 2006, e Portatile, antologia appena uscita con Einaudi Stile Libero, l’elemento che accomuna narrativa e saggistica è sempre uno: la continua, quasi ossessiva, attenzione verso l’altro. Sono le necessità e i bisogni dell’essere umano che interessano Wallace, un autore che scrive con la mente e il corpo costantemente rivolti alla relazione umana, al rapporto tra sé e gli altri e a quello degli altri tra di loro. Nonostante fosse agorafobico, David Foster Wallace viene mandato come inviato, grazie al suo acuto e spudorato talento descrittivo, a partite di tennis e fiere di paese, in situazioni caotiche popolate da un’umanità variegata capace dei migliori e dei peggiori impulsi.
Una cosa divertente che non farò mai più, reportage del 1997 da una nave da crociera, è un concentrato di ironia kafkiana e grottesca, filtrata attraverso la riflessione sullo scorrere del tempo e sull’ineluttabilità della morte. Un racconto allucinato della definitiva vittoria del capitalismo che per certi versi ripropone nella non-fiction le stesse tematiche della distopia di Infinite Jest.
L’occhio da Cassandra di David Foster Wallace si è spento agli albori di Facebook e Twitter, prima di Instagram e Snapchat. A quasi dieci anni dalla sua morte, non si può fare a meno di chiedersi a quali nuove ricerche stilistiche sarebbe approdato, a quali nuovi realismi, e come avrebbe raccontato, se avesse potuto continuare a scrivere, questa società liquida e postumana.
1 note · View note
fabioferreiraroc · 5 years ago
Text
30 livros brasileiros obrigatórios para ler durante a vida, segundo os leitores da Bula
A Revista Bula realizou uma enquete para descobrir quais são, segundo os leitores, os livros brasileiros que todos deveriam ler pelo menos uma vez na vida. Dentre os mais votados, estão alguns clássicos já conhecidos, como “Memórias Póstumas de Brás Cubas” (1881), de Machado de Assis; mas o público também mencionou várias obras contemporâneas.
A Revista Bula realizou uma enquete para descobrir quais são, segundo os leitores, os livros brasileiros que todos deveriam ler pelo menos uma vez na vida. A consulta foi feita a colaboradores, assinantes — a partir da newsletter —, e seguidores da página da revista no Facebook e no Twitter. 1400 participantes responderam à enquete. Os 30 mais votados foram reunidos com suas respectivas sinopses, que foram adaptadas das originais, divulgadas pelas editoras. Dentre eles, estão alguns clássicos já conhecidos, como “Memórias Póstumas de Brás Cubas” (1881), de Machado de Assis; mas o público também mencionou várias obras contemporâneas, como “Nunca Houve um Castelo” (2018), de Martha Batalha. Os títulos estão organizados de acordo com o ano de lançamento: do mais recente para o mais antigo.
Nunca Houve um Castelo (2018), de Martha Batalha
Martha Batalha recria a trajetória dos descendentes de Johan Edward Jansson, cônsul da Suécia no Brasil. Para contar essa história, a autora relata duas festas de Ano Novo que foram marcantes para a família. Na primeira, no fim do século 19, Johan Edward Jansson conhece Brigitta, em Estocolmo. Eles se casam, mudam para o Rio de Janeiro e constroem uma casa num lugar ermo e distante do centro, chamado Ipanema. Setenta anos depois, Estela, recém-casada com o neto de Johan, presencia uma cena desastrosa para seu casamento em uma festa de Réveillon. “Nunca Houve um Castelo” explora como esses dois eventos definiram a trajetória dos Jansson ao longo de 110 anos. É uma comovente saga familiar sobre escolhas, arrependimentos e as mudanças imperceptíveis do tempo.
Como se Estivéssemos em Palimpsesto de Putas (2016), de Elvira Vigna
Dois estranhos se encontram num verão escaldante no Rio de Janeiro. Ela é uma designer em busca de emprego, ele foi contratado para informatizar uma editora moribunda. O acaso junta os protagonistas numa sala, onde ele relata a ela seus encontros frequentes com prostitutas em suas viagens a trabalho. Ela mais ouve do que fala, enquanto preenche na cabeça as lacunas daquela narrativa e desmonta os argumentos de João. Desses encontros, Elvira Vigna cria um poderoso jogo literário de traições e insinuações, um livro sobre relacionamentos, poder e mentiras. Elvira foi uma das maiores escritoras contemporâneas do Brasil, publicou dez romances, muitos deles premiados; e vários contos. Ela morreu em julho de 2017, vítima de câncer.
Quarenta Dias (2014), de Maria Valéria Rezende
Alice é uma professora aposentada, que tinha uma vida pacata em João Pessoa, até ser obrigada pela filha a abandonar tudo e se mudar para Porto Alegre. Ao chegar na cidade, recebe a notícia de que a filha e o genro irão passar seis meses na Europa. Sozinha em uma cidade desconhecida, Alice se revolta por ter deixado João Pessoa e passa a registrar seus sentimentos em um diário. Ao saber que Cícero Araújo, filho de uma amiga paraibana, desapareceu perto em Porto Alegre, Alice começa a procurá-lo pelas ruas da cidade. Por 40 dias, ela vagueia só, em uma busca frenética que pode levá-la a insanidade. “Quarenta Dias” foi o vencedor do Prêmio Jabuti de Romance, em 2015. Autora de cinco romances, Maria Valéria Rezende é uma das mais aclamadas escritoras brasileiras da atualidade.
O Drible (2013), de Sérgio Rodrigues
Em “O Drible”, Sérgio Rodrigues conta um drama entre pai e filho, recupera episódios sombrios da história recente do país e faz uma celebração do futebol rara na literatura. Desenganado pelos médicos, Murilo Filho, um cronista esportivo de 80 anos, tenta se reaproximar do filho, Neto, com quem brigou há um quarto de século. Toda semana, em pescarias dominicais, Murilo preenche com saborosas histórias dos craques do passado o abismo que o separa de seu filho. Revisor de livros de autoajuda, Neto leva uma vida medíocre colecionando quinquilharias dos anos 1970 e conquistando moças. Desde os 5 anos, quando a mãe se suicidou, sente-se desprezado pelo pai.
Barba Ensopada de Sangue (2012), de Daniel Galera
Um professor de educação física busca refúgio em Garopaba, um pequeno balneário de Santa Catarina, após a morte do pai. O protagonista, cujo nome não conhecemos, se afasta da relação conturbada com os outros membros da família e mergulha em um isolamento geográfico e psicológico. Ao mesmo tempo, ele empreende a busca pela verdade no caso da morte do avô, o misterioso Gaudério, que teria sido assassinado décadas antes na mesma Garopaba, na época apenas uma vila de pescadores. Sempre acompanhado por Beta, cadela do falecido pai, o professor interroga os moradores mais antigos da cidade.
Pornopopeia (2008), de Reinaldo Moraes
Um marco na ficção contemporânea, “Pornopopeia” é um livro sobre a obsessão pelo prazer e o individualismo exacerbado. Conta a história de José Carlos Ribeiro, o Zeca, um ex-cineasta marginal e dependente químico, que tem um único longa-metragem em seu currículo, chamado “Holisticofrenia”. Agora, para sobreviver, ele precisa se dedicar à produção de vídeos promocionais de gosto duvidoso. Empacado em um projeto para uma empresa de embutidos de frango, Zeca acaba entrando numa espiral de bebidas, sexo e drogas. Na contramão dos personagens tradicionais, o produtor não está atrás de redenção ou transformação. Na maior parte do tempo, quer apenas se entregar aos prazeres, sem pensar no amanhã.
O Filho Eterno (2007), de Cristóvão Tezza
Editora Record
“O Filho Eterno” é um relato autobiográfico narrado em terceira pessoa. Na sala de espera, entre um cigarro e outro, o protagonista está prestes a ter seu primeiro filho. Ao ver o médico, ele pergunta se está tudo bem, mas não tem dúvidas da resposta positiva. Em sua cabeça, já imagina o filho com cinco anos, a cara dele. Enquanto ainda tenta se acostumar com a novidade de ter se tornado pai, ele tem que se habituar com uma outra ideia: ser pai de uma criança com síndrome de Down. A notícia o desnorteia e provoca uma enxurrada de emoções contraditórias. Nessa história, Tezza expõe as dificuldades e as saborosas pequenas vitórias de criar um filho com síndrome de Down.
Eu Receberia as Piores Notícias dos seus Lindos Lábios (2005), de Marçal Aquino
No momento em que começa a narrar os fatos de “Eu receberia as piores notícias dos seus lindos lábios”, o fotógrafo Cauby está convalescendo de um trauma numa pensão barata, numa pequena cidade do Pará. Paulistano, culto e viajado, ele decidiu deixar a vida confortável para viver novas experiências no interior do Norte. Fazendo bicos para o jornal local, ele se depara com Lavínia, uma mulher sedutora e misteriosa, que é casada com Ernani, um pastor evangélico. Lavínia era uma mulher viciada em drogas e foi tirada das ruas por Ernani, a quem se sente grata. Mas, apenas pela troca de olhares, ela acaba se apaixonando por Cauby. Mesmo diante de todos os perigos, eles se arriscam a ficar juntos.
Deixe o Quarto Como Está (2002), de Amilcar Bettega Barbosa
Um homem toma um trem para sair da cidade, mas não consegue deixar o perímetro urbano. Outro personagem acorda em seu quarto e percebe que está acompanhado de um crocodilo. Uma casa redesenha a própria arquitetura como se estivesse viva. Nas histórias de “Deixe o Quarto Como Está”, a lógica cotidiana abre espaço para estranhos eventos. Alguns dos contos, como “Auto-retrato”, “Aprendizado” e “Para salvar Beth”, permitem uma leitura realista. Outros adentram sem hesitação o terreno do fantástico: “Hereditário”, “O crocodilo”, “O rosto”, e “O encontro”, fantasias kafkianas narradas com o humor de um cineasta surrealista. Há também relatos que ficam entre o real e a fantasia, como “Exílio”, “Correria” e “Espera”. O livro recebeu o Prêmio Açorianos de Literatura, em 2003.
Chove Sobre Minha Infância (2000), de Miguel Sanches Neto
“Chove Sobre Minha Infância” nasce das vivências reais do paranaense Miguel Sanches Neto, mas não é uma autobiografia. Mesmo quando se vale de suas próprias experiências, o autor não busca a verdade factual, mas a psicológica. Ainda pequeno, o protagonista, que leva o mesmo nome do autor, perde o pai analfabeto. Como herança, recebe cadernos em branco com a missão de preenchê-los. Muito pobre, a mãe de Miguel se casa com Sebastião, um caminhoneiro que se torna proprietário de uma cerealista. Com vocação para as letras, o garoto passa toda a infância e adolescência em embate com o padrasto, que despreza qualquer outra ocupação que não seja braçal.
Madona dos Páramos (1982), de Ricardo Guilherme Dicke
Doze foragidos da força policial mato-grossense se embrenham sertão adentro, a cavalo, em busca da a Figueira-Mãe, terra que representa a promessa de bem-estar e justiça. Como num ritual de iniciação, a jornada pelo sertão do Tuaiá é uma travessia de enfrentamentos contra o clima e a geografia daquele espaço inóspito. Entre os doze, a Moça Sem Nome, arrebatada do lar e da família à força, é a única mulher. Embora se mantenha imaculada, suas curvas serpenteando no andar dos cavalos atraem o desejo de todos. Filho de garimpeiros, Ricardo Guilherme Dicke nasceu na Chapada dos Guimarães, no Mato Grosso, em 1936. Além de escritor, foi artista plástico. Ele morreu em 2008.
Poema Sujo (1976), de Ferreira Gullar
“Poema Sujo” é conhecido por transgredir os limites da linguagem poética. Foi escrito na Argentina, onde Ferreira Gullar estava exilado, durante a ditadura militar. Os mais de dois mil versos, com traços autobiográficos, são um desabafo e relembram a vida do autor, desde a infância, vivida no Maranhão, até os ideais políticos que abraçou na maturidade. Pensando estar próximo da morte, resolveu escrever convulsivamente, escancarando os problemas sociais do Brasil e da América Latina. “Sentia-me dentro de um cerco que se fechava. Decidi, então, escrever um poema que fosse o meu testemunho final, antes que me calassem para sempre”, escreveu Gullar sobre “Poema Sujo”.
Catatau (1975), de Paulo Leminski
Escrito ao longo de oito anos, “Catatau” é um livro de prosa experimental que trata das alucinações do filósofo Descartes em uma visita ao Brasil, junto com Mauricio de Nassau, durante as invasões holandesas do século 17. Perdido na selva tropical de Pernambuco, se assusta com a natureza abundante, com os costumes dos indígenas e vê sua razão naufragar: “Duvido se existo, quem sou eu se esse tamanduá existe?”, pergunta. Enquanto vagueia sobre a realidade encontrada, espera um amigo polonês que, supostamente, virá buscá-lo. Um clássico da literatura recente, “Catatau” se filia à grande tradição das novelas satíricas filosóficas de grandes autores, como Denis Diderot e Daniel Defoe.
Feliz Ano Novo (1975), de Rubem Fonseca
“Feliz Ano Novo”, livro de contos de Rubem Fonseca, aborda temas como violência, moralismo, solidão e caos urbano. Publicada em 1975, época em que o Brasil vivia a ditadura militar, foi censurada pelo governo por apresentar os problemas sociais do país e pela linguagem violenta. Enquanto proibido no Brasil, foi editado na Espanha e na França. Só foi liberado por aqui em 1985. O conto que dá nome ao livro conta a história de três amigos, na noite ano novo, que vão buscar armas para assaltar um banco dali a dois dias. Mas, ao pegarem as armas, decidem usá-las na mesma noite, para invadir uma festa de réveillon da elite. Ao fim do conto, após matarem e violentarem várias pessoas, eles brindam a chegada do novo ano.
Lavoura Arcaica (1975), de Raduan Nassar
Em um texto que entrelaça o novelesco, o lírico e elementos bíblicos, “Lavoura Arcaica” narra a vida de André, um jovem do meio rural que decide abandonar a numerosa família do interior para morar sozinho em outra cidade. Fugindo do ambiente sufocante da lavoura, ele procura se afastar da rigidez moral de seu pai e da paixão incestuosa pela própria irmã, Ana. Os parentes estranham o desaparecimento de André, e o irmão mais velho, Pedro, é encarregado de trazê-lo de volta. É a partir das indagações de Pedro que surgem as lembranças de André. Logo após a publicação, o livro mostrou-se revolucionário, conquistando o status de clássico da literatura brasileira.
O Encontro Marcado (1967), de Fernando Sabino
Dividido em duas partes, o livro narra a vida do escritor Eduardo Marciano, considerado o alter ego de Fernando Sabino, em sua contínua busca pelo sentido da existência. Nascido em Belo Horizonte, em Minas Gerais, Eduardo é um filho único, que cresce ao lado de seus melhores amigos, Mauro e Hugo. Boêmio e questionador, decide se tornar escritor, contrariando o pai, que deseja que ele tenha uma profissão formal. Tudo muda quando Eduardo se apaixona por Antonieta, se casa repentinamente e vai morar no Rio de Janeiro. Após o casamento, a monotonia da vida a dois atinge o escritor, que se distancia cada vez mais da mulher e acaba sendo deixado por ela. Em depressão, Eduardo volta a Minas Gerais para encontrar seus antigos amigos e refletir sobre as escolhas que fez durante a vida.
Os Dragões e Outros Contos (1965), de Murilo Rubião
Uma coletânea de 20 contos, este livro representa a essência de Murilo Rubião, considerado um dos precursores do realismo fantástico no Brasil. Mesclando o real cotidiano às tramas excêntricas, cria histórias que levam o leitor à reflexão. No texto que dá nome à obra, dragões chegam repentinamente a uma pequena cidade. As crianças brincam com os seres, alguns adultos consideram que devem ser domesticados, mas o padre diz que os dragões foram enviados pelo diabo e precisam ser nomeados e batizados. Formado em Direito, Murilo Rubião foi atraído pelo jornalismo e, mais tarde, se tornou escritor, dedicando-se exclusivamente aos contos. Nascido em 1916, na cidade de Carmo de Minas, ele morreu em 1991.
O Vampiro de Curitiba (1965), de Dalton Trevisan
O livro possui 15 contos, todos ambientados em Curitiba e impregnados de suspenses e enigmas. Assim como um vampiro, Nelsinho, principal personagem, busca, sem culpa ou pudor, o prazer a qualquer custo. Obcecado por sexo, vagueia pela provinciana Curitiba atrás de suas vítimas, andando por caminhos obtusos enquanto abre os olhos do leitor à visão de uma cidade decadente. Considerado uma obra-prima do autor, este livro traz Dalton Trevisan em sua forma mais clássica: objetivo, conciso, minimalista, irônico e pessimista. As histórias representam situações-limite que, por seu absurdo, contêm elementos de paródia, humor e fantasia, ao mesmo tempo em que exploram a crueldade e a sordidez revelados nos impulsos mais profundos do ser humano.
A Paixão Segundo G.H. (1964), de Clarice Lispector
A narrativa banal, mas ao mesmo tempo dotada de genialidade, aborda os pensamentos de G.H., uma mulher comum que despede a empregada doméstica e decide fazer uma faxina no quarto de serviço, que ela supõe ser imundo e cheio de inutilidades. A protagonista se frustra ao encontrar o local limpo e arrumado, ao contrário do que imaginava, mas a insatisfação é interrompida quando ela se depara com uma barata. Depois de esmagar o inseto, G.H. decide provar a massa branca que surge de suas entranhas, e o episódio faz com que ela tenha uma grande revelação sobre si mesma. G. H. sai de sua rotina civilizada, reconhecendo sua condição de dona de casa e mãe como um selvagem.
Os Cavalinhos de Platiplanto (1959), de José J. Veiga
Estreia de José J. Veiga, “Os Cavalinhos de Platiplanto” é uma coletânea de 12 contos que traz, em geral, memórias sobre a infância. Os contos do livro apresentam ao leitor um universo que mescla o embate entre os sonhos de seus personagens e a realidade do cotidiano. A história que dá nome à obra fala sobre um garotinho, criado no interior, que possui uma grande afeição pelo avô, que está doente. Com o passar do tempo, o menino entende que não ganhará o presente que lhe foi prometido pelo avô: um cavalinho. Conhecido como o maior autor de realismo fantástico em língua portuguesa, José J. Veiga foi vencedor dos prêmios Jabuti e Machado de Assis. Ele nasceu em 1915, em Corumbá de Goiás; e morreu em 1999.
O Ventre (1958), de Carlos Heitor Cony
Primeiro romance de Carlos Heitor Cony, “O Ventre” relata o drama de José Severo, um jovem desajustado. Nascido em uma família da classe média alta do Rio de Janeiro, é desprezado pelo pai ao longo da vida, por ser fruto de uma relação extraconjugal da mãe. Na adolescência, tem uma relação de amor e ódio com o irmão mais novo, superprotegido por ser asmático. É mandado para um colégio interno, enquanto o irmão recebe todas as regalias em casa. Além disso, Severo é ignorado pela mulher que ama desde a infância. Após a morte da mãe, decide se afastar de tudo e de todos, levando uma vida amargurada e solitária. Influenciado pelo existencialismo francês e pelo estilo machadiano, o livro foi saudado pela crítica já em 1958, ano de sua publicação
A Lua Vem da Ásia (1956), de Campos de Carvalho
“A Lua Vem da Ásia” é um marco da literatura surrealista no Brasil, uma pseudobiografia em forma de diário que abriga as confissões de homem, chamado Astrogildo, que vive em um hotel de luxo que, para o bem da verdade, parece-se mais com um campo de concentração ou com um manicômio. Os funcionários do estabelecimento são vigilantes risíveis; o maitre ministra sopas e banhos aos hóspedes; o gerente é aficionado por disciplina e horários; sua mulher aplica injeções em quem encontra pela frente; e as grades nas janelas espantam os ladrões. Ao contar suas recordações — ou alucinações —, Astrogildo narra um mundo governado pela lei do absurdo, mas que é assustadoramente semelhante à normalidade de qualquer um.
Grande Sertão: Veredas (1956), de Guimarães Rosa
Nesta obra, o autor utiliza da linguagem própria do sertão para que Riobaldo, o protagonista-narrador, conte sua vida. Riobaldo, um jagunço, fala sobre suas histórias de vingança, lutas, perseguições, medos, amores e dúvidas pelos sertões. A narração é sempre interrompida por momentos de reflexão sobre os acontecimentos do sertão e Riobaldo divaga constantemente sobre a existência do diabo, já que acredita ter vendido sua alma a ele. Além disso, o narrador conta sobre Diadorim, outro jagunço com quem estabelece uma relação diferenciada, que se coloca nos limites entre a amizade e o relacionamento afetivo de um casal.
Romanceiro da Inconfidência (1953), de Cecília Meireles
“Romanceiro da Inconfidência” é considerado o livro mais importante de Cecília Meireles. A obra é o resultado de uma longa pesquisa histórica da autora, que construiu um retrato da Inconfidência Mineira em forma de versos. Os versos foram um único e extenso poema, que representa uma reflexão filosófica e metafísica sobre a condição humana. A narrativa é contada do ponto de vista dos derrotados (transformados em heróis após a Independência), e denuncia as mazelas do sistema imperial, que vigorava à época. Ela aborda acontecimentos como a descoberta do ouro, a chegada dos mineradores e a morte de Tiradentes.
O Tempo e o Vento (1949-1962), Erico Verissimo
“O Tempo e o Vento” é uma trilogia de romances históricos, divididos em: “O Continente” (1949), “O Retrato” (1951), e “O Arquipélago” (1961). O romance conta a história do Brasil vista a partir da região sul, desde a ocupação do “Continente de São Pedro”, em 1745, até o fim do Estado Novo, em 1945. Toda a trama é criada a partir da saga das famílias Terra, Caré, Amaral e Cambará. Neste cenário, desfilam personagens fascinantes, como o enigmático Pedro Missioneiro, a corajosa Ana Terra, o sedutor Capitão Rodrigo e a tenaz Bibiana. O livro é considerado por muitos a obra definitiva do Rio Grande do Sul e uma das mais importantes do Brasil.
Vidas Secas (1938), Graciliano Ramos
Em “Vidas Secas”, publicado originalmente em 1938 e considerado um dos mais importantes romances da história da literatura brasileira, o autor retrata a vida de uma família de retirantes nordestinos. O que impulsiona os personagens, Fabiano, Sinhá Vitória, os filhos e a cachorra baleia é a seca, áspera e cruel, e paradoxalmente a ligação telúrica, afetiva, que expõe naqueles seres em retirada, à procura de meios de sobrevivência e um futuro. Considerado o maior ficcionista do Modernismo brasileiro, Graciliano Ramos ficou conhecido por denunciar as mazelas sociais do Nordeste. Com “Vidas Secas”, ganhou o Prêmio Fundação William Faulkner, nos Estados Unidos. Ele morreu em 1953.
Macunaíma (1928), de Mário de Andrade
Considerado a obra-prima de Mário de Andrade, “Macunaína” é fruto das pesquisas que o autor fazia sobre as origens e especificidades da cultura do povo brasileiro. O protagonista, Macunaíma, nasce negro, em uma aldeia indígena. Já na infância, manifesta sua principal característica: a preguiça, e desde tenra idade sofre uma pulsão sensual que não conhece limites. Sua saga envolve a busca pela muiraquitã, um amuleto de pedra, que o leva a São Paulo, onde, após banhar-se em águas encantadas, se torna branco, louro e de olhos azuis. Admirada como uma reflexão provocante sobre a identidade de um povo em formação, a obra tornou-se um ícone popular do país.
Eu (1912), de Augusto dos Anjos
Em “Eu”, único livro de poemas de Augusto dos Anjos, o autor constrói um retrato da humanidade, a partir de uma visão pessimista, com inclinação para a morte. Exprime melancolia, ao mesmo tempo em que desafia o movimento parnasiano, usando palavras não-poéticas. Quanto à estrutura, pode-se dizer que as poesias de Augusto dos Anjos apresentam rigor na forma e rico conteúdo metafórico. Um marco do período pré-modernista brasileiro, “Eu” só foi reconhecido após a morte do escritor, em 1914. Paraibano, ele morreu aos 30 anos, vítima de uma pneumonia. Seus outros poemas foram lançados em periódicos.
Memórias Póstumas de Brás Cubas (1881), de Machado de Assis
O livro é narrado por Brás Cubas, um “defunto-autor”, ou seja, um homem que já morreu e deseja escrever sua autobiografia. Na infância, foi cercado pelos privilégios da elite carioca do século 19. Era um garoto mimado, chamado de “menino diabo”. Já adolescente, se apaixonou por Marcela, uma prostituta de luxo, com quem quase gastou toda a fortuna da família. Para esquecê-la, vai estudar em Coimbra, em Portugal, mas volta ao Brasil com o diploma nas mãos. Inapto para o trabalho, decide entrar para a política. “Memórias Póstumas de Brás Cubas” é considerado um livro divisor na literatura brasileira e na carreira de Machado de Assis, representando a transição do autor do romantismo para o realismo.
30 livros brasileiros obrigatórios para ler durante a vida, segundo os leitores da Bula Publicado primeiro em https://www.revistabula.com
4 notes · View notes
carolinerferreira · 5 years ago
Photo
Tumblr media
Assistindo o vídeo, eu consegui entender que histórias/situações “kafkianas” têm como principal característica uma visão absurda, mas que contém um fundo de verdade, de situações cotidianas. Kafka, em suas narrativas, mostrava o quão focadas as pessoas estão em suas obrigações, o quanto elas mesmas se prendem em situações desconfortáveis e a falta de sentido que existe nisso, quando observamos de fora. Portanto, algo “kafkiano” é aquilo que, por meio do absurdo, relata um pouco da realidade.
Imagem: capa do Ted Talk assistido em aula
2 notes · View notes
miguelmarias · 6 years ago
Text
FRENZY
Se ha dicho que FRENZY (1972) representa, en la obra de Hitchcock, un retorno a los orígenes, una vuelta al cine que hacía en su país natal, antes de emigrar a Estados Unidos y convertirse en un cineasta americano. El "regreso aéreo" a Londres que constituye el genérico de FRENZY, la muy británica música de Ron Goodwin, el sabroso ambiente londinense que describe (los pubs, el mercado de Covent Garden, Picadilly, Leicester Square), el equipo técnico y artístico íntegramente inglés y el espléndido y macabro humorismo que baña casi todas sus secuencias, parecen corroborar tal afirmación.
Sin embargo, es radicalmente falso, fundamentalmente erróneo el pretender que existe entre FRENZY y películas como THE RING (1927), BLACKMAIL (1929), LOS 39 ESCALONES (1935), SABOTAGE (1936), o THE LADY VANISHES (1938) un mayor parentesco que entre estas y otras americanas, como REBECA (1940), NOTORIOUS (1946), THE TROUBLE WITH HARRY (1955), VERTIGO (1958), PSICOSIS (1960) o CORTINA RASGADA (1966). Por el contrario, FRENZY es la lógica y, hasta cierto punto previsible culminación del nuevo estilo abordado por Hitchcock en LOS PÁJAROS (1963), explorado en CORTINA RASGADA y dominado ya en la incomprendida y magistral TOPAZ (1969). Para apoyar esta tesis bastará comparar el uso estructural del SUSPENSE en FRENZY y en otra película cuyo tema central es el del falso culpable, THE WRONG MAN (1956).
En el más antiguo de estos dos films, se nos presenta al protagonista, Christopher Emmanuel Balestrero (Henry Fonda), desde las primeras imágenes, para no abandonarle ya prácticamente nunca. Los personajes del drama son pocos: en rigor, Balestrero, su esposa Rose (Vera Miles), un abogado (Anthony Quayle), un detective y la entrevista silueta del verdadero culpable. En ningún momento dudamos de la inocencia de Balestrero: sabemos por qué ha ido a la agencia de seguros, que es una buena persona (la mera lección de Henry Fonda para interpretar su personaje nos convence de su honestidad), que no robó nada; nos inquieta que sospechen de él, y vemos que sus delatoras son unas histéricas irresponsables; compartimos su humillación ante la rutinaria desconfianza de la policía; tememos como él por la salud de Rose; nos abruma también la fatídica acumulación de circunstancias adversas que lo acusan; deseamos su libertad casi tanto como él. En resumen, Hitchcock ha logrado, unificando nuestro punto de vista con el suyo, que nos identifiquemos con Balestrero desde el primer momento al último.
Veamos, en cambio, que ocurre en FRENZY. Lo primero que Hitchcock nos presenta, y con no poca ironía, es el "cuerpo del delito": una mujer, desnuda y estrangulada con una corbata, que flota por el Támesis. Poco después conocemos a un tal Richard Ian Blaney (Jon Finch, actor poco conocido y no especialmente simpático: "nada ideal"), personaje un tanto amargado, poco trabajador, de temperamento violento e inestable, no muy de fiar. Poco a poco vamos percatándonos —no sin cierta alarma— de que Blaney va a ser el protagonista del film, y de que su comportamiento es un tanto sospechoso —no para algún personaje del film, sino para nosotros, sus espectadores—. Mientras tanto, tomamos contacto con otros personajes; la feúcha pero simpática Babs Milligan (Anna Massey), su novia; el simpático y despreocupado Robert Rusk (Barry Foster), su mejor amigo; la resignada y bondadosa Brenda (Barbara Leigh-Hunt), su ex-esposa. No lo sabemos, pero hemos conocido ya al verdadero culpable y a sus dos próximas víctimas. De pronto, Hitchcock nos hace identificarnos con Brenda, y ya sabemos qué va a ocurrir. A los 26 minutos de proyección podemos darnos cuenta de quién es el asesino de la corbata, y cuatro minutos más tarde Hitchcock nos desvela ya la identidad del culpable: vemos cómo Rusk asesina a Brenda, y nos identificamos por fin con Blaney, seguros de su inocencia, cuando todo empieza a acusarle (esta parte sigue un esquema muy semejante al del inicio de THE WRONG MAN). A partir de entonces nos vemos más y más identificados con Blaney, y con él padecemos el acoso al que se ve sometido. Con él huimos, nos ocultamos y tememos hasta que, de pronto, Hitchcock nos lleva a compartir las andanzas de la leal Babs, que intenta ayudar a Blaney a huir al Continente y que, como todo el mundo, confía en Rusk. Dada que nuestra simpatía por Babs es mayor de la que sentíamos por Brenda, Hitchcock nos ahorra esta vez el espectáculo de su muerte, dejando que la impresión causada por el anterior crimen se descargue sobre nuestra imaginación durante una elipsis ya famosa y que no tiene nada de "brillante ejercicio de estilo", y sí mucho de necesario y magistral tour de force. Con el asesinato de Babs nuestra intranquilidad crece —pues si Hitchcock permite la muerte de un personaje así es que todo puede suceder, como en PSICOSIS tras la inesperada eliminación de Janet Leigh—, y Blaney pierde la posibilidad de huir y una aliada fiel; lo peor es que también la muerte de Babs le hace parecer sospechoso, y encima nos damos cuenta, con desesperación, de que sólo le queda ya una persona en la que confía lo bastante como para buscar su ayuda: Bob Rusk, el asesino.
Por si no fuese bastante la inseguridad que ha sembrado ya en nosotros, Hitchcock complica aún más nuestra posición moral en el film: tras habernos hecho sospechar de un inocente, confiar en un asesino y padecer con dos víctimas y con el falso culpable, nos hace ahora identificarnos con el asesino. En efecto, desarrollando una idea que tuvo durante el rodaje de CORTINA RASGADA sobre lo difícil y engorroso que es, en realidad, dar muerte a alguien, y lo fácil que parece en las películas, y después de mostrarnos los apuros del Profesor Armstrong (Paul Newman) y una campesina alemana (Carolyn Conwell) para, muy chapuceramente, lograr deshacerse del molesto Gromek (Wolfgang Kieling) en dicho film, Hitchcock nos hace ahora presenciar y compartir la desagradable tarea que representa para un asesino el desembarazarse del cadáver de su víctima; y más aún, conseguir arrancar de los rígidos dedos de Babs un alfiler de corbata comprometedor, en un camión en marcha y cargado de sacos de patatas. Con una meticulosidad implacable, distanciada y catártica a la vez, Hitchcock nos hace volver a sentir la irreparable pérdida de Babs y, al mismo tiempo, nos lleva a compadecer a su asesino.
Pero las audaces maniobras de Hitchcock no se detienen ahí, sino que volvemos a "vivir" el drama desde la posición que en él ocupa el perseguido Blaney, que acude —como ya temíamos— a Rusk para pedirle asilo. Mientras —sin que Blaney sepa nada— su supuesto amigo le delata a la policía, esperamos con impaciencia que el protagonista descubra en casa de Rusk las ropas de Babs; pero le detienen cuando estaba a punto de verlas y darse cuenta de todo. Nos toca ahora seguir, por un lado, la marcha de la investigación que llevan a cabo el Inspector Oxford (Alec McCowen) y su esposa (Vivien Merchant) —protagonistas de deliciosas viñetas gastronómicas llenas de humor— y, por el otro, el encarcelamiento y condena de Blaney, y su evasión poco antes de ser ejecutado. Y una vez libre, ¿a dónde se dirige nuestro falso culpable? A casa del asesino; y precisamente cuando Oxford, gracias a su mujer, empieza a tener dudas sobre la culpabilidad de Blaney, le dan la noticia de su fuga. Mientras Blaney sube por la escalera que conduce al apartamento de Rusk, tememos por su vida; cuando penetra en él y lo encuentra vacío pero con el cadáver desnudo y con una corbata ciñéndole el cuello de una mujer, y comprende todo, tememos que aparezca la policía y se persuada definitivamente de que es un asesino; y cuando quien sube por la escalera resulta no ser Oxford, sino Rusk, tememos que Blaney se tome la justicia por su mano y se convierta de verdad en un asesino. Al final, como es habitual en Hitchcock, los dilemas morales han sustituido al peligro como fuente de suspense justo en el momento en que el film va a liberarnos del drama que viven sus personajes.
Como se ve, el contraste entre THE WRONG MAN —por no hablar de los films ingleses, mucho más simples— y FRENZY no puede ser mayor: la muy superior complejidad estructural y moral de esta última película parece indiscutible, a pesar de contar con una historia más inverosímil —la de THE WRONG MAN, aunque kafkiana, seguía fielmente un hecho real— y demostrar Hitchcock en ella un mucho más agudo sentido del humor. Como en CORTINA RASGADA (por ser Paul Newman y Julie Andrews poco hitchcockianos, y recibir un tratamiento poco simpático) y TOPAZ (por ser los actores casi desconocidos), Hitchcock ha renunciado en FRENZY a utilizar estrellas famosas y atractivas (como James Stewart o Cary Grant, como Ingrid Bergman, Kim Novak o Grace Kelly) para lograr la identificación del público con los personajes; ésta se produce en los tres films mediante la estructuración del relato a través de los diferentes puntos de vista, mediante una planificación cada vez menos subjetivista y menos tributaria del "efecto Kuleshov", pero igualmente precisa y rigurosa. Como en los dos films precedentes, el número de personajes se ha multiplicado, aunque, al contrario que en ellos, en FRENZY los escenarios han dejado de ser numerosos para reducirse a uno, Londres. Tal vez por esta menor dispersión espacial y por haber disminuido el número de comparsas importantes (casi ilimitado en CORTINA RASGADA y TOPAZ), puede considerarse que FRENZY constituye, por el momento, la culminación de las investigaciones que sobre la estructura narrativa y la naturaleza del SUSPENSE ha emprendido Hitchcock desde que empezó a pensar en la posibilidad de hacer una historia de suspense en un film más "suelto", con una forma menos rígida (cfr. el Capítulo 15 del libro de entrevistas de Truffaut con Hitchcock), ya que en esta última película Hitchcock ha logrado que la yuxtaposición lineal o alternativa de las secuencias independientes que la constituyen dé lugar a una línea narrativa "continua", pero mucho más compleja que en los films de los años 50 y 60. En este sentido, la aparente dispersión de TOPAZ fue un paso decisivo, ya que en esta película Hitchcock rompió con su costumbre de hacer que el espectador siguiese un punto de vista único durante casi toda la película, para hacerle pasar incesantemente del de un personaje al de otro, arriesgándose así —como venía haciéndolo desde LOS PÁJAROS, tras la perfección clásica de VERTIGO, INTRIGA INTERNACIONAL (1959) y PSICOSIS— a distanciar a su público con tal de conseguir de él un mayor grado de responsabilidad moral.
Si, en diferente medida, LOS PÁJAROS, MARNIE (1964), CORTINA RASGADA y TOPAZ eran películas experimentales, y por ello tal vez más apasionantes y fértiles —sobre todo la última, la más audaz—, tampoco conviene considerar FRENZY como un mero film de suspense, divertido, inteligente y juvenil. En primer lugar porque ninguno de los Hitchcock americanos —salvo tal vez, PARA ATRAPAR AL LADRÓN, 1955— se limita a ser eso, lo reconozca o no su autor; pero, sobre todo, como el esquemático análisis de su estructura indica con bastante claridad, porque FRENZY es, con VERTIGO, MARNIE, CORTINA RASGADA y TOPAZ, la película moralmente más subversiva de cuantas ha realizado el autor de STRANGERS ON A TRAIN (1951), ya que subversivo resulta, especialmente en el contexto de un cine como el actual —tan afanado en hacer que el público so sienta confortable, satisfecho e incluso "progresista" sin serlo—, el minar la tranquilidad del espectador, el poner en evidencia lo precipitado de sus juicios y su tendencia a fiarse de las apariencias, el hacerle sentir que las cosas no son como parecen, que lo inquietante se oculta entre lo más cotidiano y vulgar, que la gente no es mala o buena sino una mezcla inextricable de sentimientos y motivaciones contradictorias; y que si se quiere pasar dos horas a oscuras, a solas en la multitud, sintiéndose un héroe, se arriesga a tener que sentirse un asesino y a compartir con él la angustia y el acoso de que a su vez es víctima. Que Hitchcock admita o no explícitamente que este es su objetivo no tiene importancia si tenemos en cuenta que, en diferentes ocasiones a lo largo de los últimos años, ha reconocido que la lógica profunda de sus películas era "hacer sufrir al espectador", que hizo LOS PÁJAROS para "minar la autocomplacencia de la gente", y que rodó como lo hizo la muerte de Gromek en CORTINA RASGADA para que el público cinematográfico se diese cuenta de lo sucio, desagradable, incómodo y difícil que resulta en realidad matar una persona. Además, ahí están FRENZY y sus demás películas, para probar que Hitchcock es, con Buñuel, el más inquietante de los cineastas.
Miguel Marías
Ojo al Cine nº1, 1974
1 note · View note
juanprieto · 4 years ago
Text
Tumblr media
LOS CAÍN. Enrique Llamas
1ª parte. Hasta UNA CASA CON DOBLE
Enrique Llamas siembra pequeñas pistas que ayudan a situar geográficamente a Somino, el pueblo ficticio en el que ocurren los hechos que cuenta en su novela "Los Caín". Son los últimos años del franquismo, por eso Héctor Cruz Fernández, un joven maestro madrileño, recibe una llamada del Ministerio de Información y Turismo en el que se adjudica una plaza vacante en un pueblo "al que nadie va ni del que nadie sale", como lo dice el paisano al que le ha preguntado para saber el camino.
Parece evidente que las competencias en educación todavía no está el transferidas a las comunidades autónomas (lo serán mayoritariamente a finales de 1999), pero tampoco podría ser antes de 1971, el año en el que Joan Manuel Serrat pública "Mediterráneo", la canción que suena en la radio mientras viaja a su destino en su flamante Seat 127.
Otro pequeño detalle: la desconfianza y el recelo con que los vecinos del pueblo reciben la presencia de a Guardia Civil nos retrotrar a los tiempos de la España predemocrática, cuando el insituto armado despertaba fundadas sospechas de parcialidad y brutalidad en los ambientes rurales, que es donde generalmente actúa.
La ubicación del mismo Somino también puede rastrearse en algunos detalles de texto. Un lugar casi perdido entre los montes, al que cuesta llegar y que parece alejado de los nuevos aires de modernidad que ya se intuían en el resto de España. Podría estar cerca de Valdevimbre, el pueblo leonés en el que Enrique Llamas nació; o más al sur, como parece indicar el uso repetido del término "buchina" para referirse a una alberca o estánque para recoger el agua y que se utiliza principalmente en el norte de Zamora.
Pero estos detalles parecen pequeñas anécdotas ante el que parece, en el arranque de la novela, el elemento que centra los enigmas y las pasiones de los personajes que se allí se reúnen.
En el Somino en el que sus habitantes parecen divididos en dos mitades, los del llano y los del teso (colina) que se vigilan y se evitan pasan cosas inexplicables, destellos arcanos y ancestrales que los forasteros son incapaces de percibir. A los habitantes de Somino el pueblo les pertenece y no les gusta que nadie de fuera se meta en sus asuntos, por eso no soportan que nadie convoque a la Guardia Civil por más que aparezcan cadáveres de ciervos en las calles, tengan lugar extrañas muertes, como la de Arcadio Cuervo, que casi abre la novela, o la sospechosa muerte de Antonia Lobo al despeñase en la sierra cercana. Dicen que se lo merecía .... (¿?)
Allí llega Héctor, a principios de septiembre, y desde su puesto en el pequeño colegio rural, con la actividad de los niños heredada de sus padres, se encuentra inmerso en las intrigas y los secretos de los que, tal vez por su inexperiencia y su juventud no sabe desprenderse.
En una entrevista el autor califica su novela de "novela negra", y no anda descaminado, ¡faltaría más!. Todo es negro en "Los Caín". hasta el diseño de la cubierta, con una foto en negativo de un ciervo sobre oscuro como la noche. También se declara influído por la visión del paisaje castellano de Delibes. Los críticos lo calificán de "country noir", por lo de suceder en el campo. Vosotros diréis.
2ª parte. Hasta OCUPAR UN ESPACIO
Desde los primeros días de estancia en Sonimo se fija en la mujer pelirroja, tan distinta de las demás mujeres del pueblo. Sofía Leon y su hijo Miquel componen una pareja diferente a los demas vecinos del pueblo. De ella fantasea con que es, a diferencia de las demás mujeres, la única que se vestía para salir a la calle. Esa diferencia, o tal vez a causa de ello, la convierte automáticamente en forastera, en una persona no aceptada los vecinos. Parece que vive exclusivamente para proteger a Miquel, tan diferente de los demás niños, tan aplicado y respetuoso.
En el colegio es acogido como un compañero más: aceptado por como uno más por algunos y recibido con suspicacias por otros. La pareja formada por Sagrario y Federico son sus mejores anfitriones, a pesar de no vivir en el pueblo. Con Ezequiel Lobo la relación es difícil. Es taimado y solitario. Argimiro, el director, es un personaje ambiguo, parece poco inmune a las presiones de los padres de Sonimo y no parece que vaya a dar la cara por sus compañeros. En cualquier caso, Héctor recibe varios consejos de sus compañeros que no sabe cómo interpretar. Le dicen que no se meta en las disputas de los chicos ni en los conflictos del pueblo, aunque le toque aguantar que le rayen el coche, que le tiren piedras o que le reten en clase con la mirada. "Nosotros aquí solo venimos a trabajar. No nos metemos en nada" le dice Federico. Los maestros se quejan del poco interés y de las miradas torcidas de los chicos. Estos apenas reciben incentivos para que trabajen en los colegio.
El recelo que levanta Héctor no sabemos si es causado porque es un recién llegado o porque las hermanas Cuervo han difundido el rumor de que él es el culpable de la constante presencia de los dos guardias civiles en el pueblo. Cavilan que utiliza las llamadas a su familiares en Madrid para advertir de todo lo que pasa en el pueblo, y en esos días empieza a ser noticia, y también los periódicos locales se hacen eco de ello, la aparicón de una gran cantidad de cadáveres de ciervos en la localidad. Los guardias civiles Sisinio y Patricio aparecen por el pueblo, escuchan lo que se habla y se comenta y, al menos, representan la autoridad en un pueblo que parece tener un sistema propio de resolver conflictos.
La persona que podría aportar algo de luz al asunto de los ciervos decide no hacerlo. Don Roberto, el veterinario, aunque no encuentra en los análisis ningún dato que pueda ayudar a esclarecer la verdad, prefiere ocultar los resultados y, de esta forma, continuar con el misterio que afecta en gran medida al bienestar de muchos habitantes de Sonimo. Los ciervos son una parte importante del sustento de las familias cuando la climatología es adversa. La caza de los ciervos, furtiva o no, aporta un dinero extra muy necesario en los años de malas cosechas. Por eso el autor señala que los del pueblo están "muy jodidos" este año.
Llega el invierno y Héctor ya no va a poder irse todos los fines de semana a Madrid. El aislamiento es todavía más intenso. El invierno es duro y lo cubre todo con la nieve perpetua. Sofía León, la pelirroja, le dice con rabia que a los del pueblo no les gusta la gente de fuera."Tenga cuidado con lo que dice, aunque lleve razón. En Somino funcionan de esta manera. Así son las cosas en este pueblo".
No ayuda a ganarse el respeto la ridícula escena en la que Héctor se olvida dentro las llaves de su casa. En una fría mañana de domingo tiene que aguantar las miradas escrutadoras y un poco irónicas de los que le ven en el bar vestido con zapatillas mientras espera que Federico le traiga otras llaves de repuesto.
Casi cien ciervos aparecieron muertos víctimas de una extraña epidemia, y también descuartizados, en el atrio de la iglesia. La presión de los guardias se redobla.
Héctor pregunta por ciertas palabras que escucha en las voces infantiles de sus alumnos: los del Llano y los del Teso. Parece que el pueblo estuviese delimitado por una frontera invisible que hiciese imposible la convivencia entre las familias. En sus juegos, los niños reproducen esa rivalidad. Juegan a que son enemigos en todas las actividades, y reproduce en las actividades del colegio los comportamientos y desencuentros que han escuchado a sus padres. Los juegos suelen acabar mal. "Los niños han escuchado sus padres y entendido lo que ha sucedido o lo que han querido entender. Probablemente lo que ha sucedido de verdad es que ahora se pelean igual que sus padres", le dice Sagrario.
Mientras tanto, los guardias civiles empezaron a pasar todos los días por el pueblo, aumentando la desconfianza y temor en los vecinos.
¿Qué temen? ¿Que se enteren del secreto del pueblo?
¿Cuánto saben ellos, los civiles?
¿Quieren proteger al maestro de los abusos y de la cerrazon del pueblo?
¿Están investigando también las últimas muertes en el pueblo, incluidas las de los ciervos?
¿Por qué el veterinario quiere ocultar los resultados del laboratorio?
3ª parte. Hasta FIN DE LA CONVERSACIÓN
En lo que llevamos leído de la historia que ocurre en Somino habíamos echado en falta la presencia de alguna autoridad para que los hechos (la muerte de los ciervos, las de los gallos y las gallinas, las pintadas, las ruedas de tractor pinchadas, las pedradas, las hostilidad hacia los guardias civiles ... ) fuesen algo creibles. En un pueblo castellano de mediados de los 70, por muy mágico que fuese, ya sabemos que había un médico, un cura, un veterinario, pero faltaba la presencia de un alcalde.
Don Anselmo, el alcalde, al que únicamente vamos a conocer en este capítulo, lleva más de treinta años en el puesto y no parece excesivamente procupado por la tensión que se está generando en su pueblo. Después de la muerte de Antonia Lobo, acude su padre, el Cejas, a hablar con don Anselmo y se produce una conversación kafkiana: el Cejas le insta a que se preocupe por la continua presencia de los "Verdes" y el alcalde se sorprende de que todavía no le hayan devuelto el cadaver de su hija y, consecuentemente, no la hayan podido enterrar.
Buchina en una tierra de cultivo en Morales del Vino (Zamora)
Algo raro han debido encontrar la policía y los forenses para no devolver a su familia el cadáver después de una semana. La novela, sorpresivamente, adquiere unos tintes negros, los producidos por una muerte poco clara.
El relato va alternando, a veces de forma lineal, a veces de forma desordenada, el punto de vista narrativo. El autor consigue con ello ir creando una estructura narrativa bastante original. Al principio utiliza más a una tercera persona como narrador omnisciente y después lo va combiando con la primera persona de su amigo Javier, que parece que está narrando, diez años después, lo que le ha ido contando Héctor de su estancia en Somino.
Sin embargo hay hechos que se escapan de lo que Héctor hubiese podido saber sobre lo que ocurrió durante el curso que pasó en el pueblo. No hubiese podido saber con tanto detalle que después de las muertes de los ciervos empezase un período en el que a los de Somino les diese por romper las lápidas y los abalorios del cementerio, unos hechos sobre los que don Miguel, el nuevo cura, investigó sin mucho éxito. Al fin y al cabo el cementerio era su territorio y, aunque la falta de feligreses en la comarca no le permitía atender en exclusiva a Somino, la importancia y el respeto que daban los vecinos a sus muertos sobrepasaba con mucho la que profesaban a los vivos.
Como casi siempre en el mundo rural, la relevancia con la que se convive con los muertos, con las tumbas y con los cementerios es superior a la que ocurre en las ciudades. En Somino el recuerdo y la tumba de la niña Esther está presente en toda la narración y todavía no sabemos la causa de esa veneración, que lleva a todos los vecinos a poner flores en su tumba o a santiguarse cuando se pasa por delante.
La relación entre la muerte hace unos años de Esther y la "buchina" (buscad en el diccionario) es evidente, pero no sabemos todavía la relación completa de los hechos. Tal vez sea ese uno de los misterios que guardan con tanto celo los vecinos de Somino. ¿La niña se ahogó o la ahogaron? Por ahora los Verdes, Verde y Verdín, como los apoda Enrique Llamas, se dedican a investigar por todo el pueblo la presencia de una buchina que ya no existe. Y sus preguntas causan pánico entre los vecinos. Hay un evidente pacto de silencio.
También sorprende un comportamiento ancestral y primitivo que afecta a los vecinos, algunos como víctimas, otros como ejecutores. Es el repentino acoso a pedradas que se generaliza en algunas calles del pueblo. Fachadas y personas sufren el impacto indiscriminado de piedras lanzadas bajo la cobertura de una espesa niebla que oculta a los culpables. Las dreas, los combates a pedradas, siempre han sido una costumbre o comportamiento habitual, sobre todo entre los muchachos, en los pueblos (sobre todo cuando había piedras por la calles), pero en Somino no respetan a niños o a mayores y parece que tienen como objetivo amedrentar o castigar a alguien, aunque desconozcamos los motivos. Héctor y las ventanas de la casa en la que vive es uno de los objetivos principales. El odio que le profesan, recordemos que lo creen responsable de hacer las llamadas a la Guardia Civil, va aumentando día a día.
En su casa se siente continuamente vigilado y en el colegio los chicos se muestran feroces con él: le han puesto el apodo de El Bombilla. Ya sabe que "todas la peleas infantiles eran una sombra más o menos nítida del mundo de los adultos". Solo encontrará alivio en el pequeño espacio de la sala de profesores. Allí entabla frecuentes conversaciones con sus compañeros Sagrario y Federico, que le intentan explicar la peculiar idiosincrasia de los habitantes de Somino. La actitud se puede resumir en la frase que Argimiro, el director, le dice a Sagrario: "no te metas en problemas hasta que los problemas no se metan en tu casa".
4ª parte. Hasta el final.
Definitivamente Los Caín se convierten en una novela negra, como comenté que había señalado el autor en una entrevista reciente.
Los muertos no han adquirido esa condición de forma natural. Han sido asesinados cada uno en una circunstancia distinta. Lo que de verdad levanta sospechas es la voluntad del pueblo en enterrar los cadáveres lo antes posible y así eliminar las pruebas que provoquen cualquier investigación policial.
Progresivamente se deslizan los detalles que nos ofrecen las pistas para conocer cómo se produjeron las muertes de la niña Esther, Arcadio, el Pelao, Antonia Lobo e, incluso, los ciervos. No todas ellas están relacionadas entre sí, aunque en cada una se advierte la señal de un sentimiento de maldad atávica y de irracionalidad propia del mundo rural más aislado.
Lo que, para mí, más nos sorprende, y lo que explica muy acertadamente las conductas solidarias de una gran parte del pueblo es que Somino, desde los años 70, se hubiese convertido en un punto estratégico de la vía de distribución de la droga entre el norte de España y Madrid. Con ese telón de fondo, el marcado por la violencia contra los que no se someten a que la justicia se ejerza entre los mismos vecinos, suceden acontecimientos que parecen inexplicables: los ciervos murieron por causas poco naturales (a no ser que se considere natural alimentarse con sustancias ilegales que has sido ocultadas en el bosque), las tumbas del cementerio acaban siendo aseguradas, los guardias civiles no salen de su asombro por lo que pasa en ese pueblo, la tranquilidad engañosa se adueña de los niños en el colegio, Héctor se siente desprotegido ante la violencia que le rodea por parte de los vecinos y por la violencia, desdén y brusquedad de sus alumnos.
Una tradición festiva y popular, las carrozas, absorbe el ímpetu juvenil y los canaliza hacia una celebración que identifica a cada parte del pueblo, el Llano y el Teso: "(Los jóvenes) no paran. Como si todo el año estuvieran preparándose para esto".
No quiero que se me olvide comentar una costumbre que define con rotundidad la vida diaria de los pueblos de hace años: los motes o apodos, Héctor, el Bombilla; Federico, el Pasmao; Sagrario, la Antillana, Sofía, la Mérita, Ezequiel, el Atravesao, Argimiro, el Gordo, todos con su pizca de mala uva, como es habitual.
Cuando se acerca el final del curso, Héctor piensa en el día en que pueda acabar su estancia en Somino. Cuenta los días que le faltan para marcharse. Federico, el Pasmao, un día de verano volvió del bosque. La noche anterior Antonia le había ido a visitar y le entregó un paquete misterioso que él se encarga de esconder en el bosque. Allí fue testigo mudo del momento en el que los dos guardias civiles encontraron el cadáver de Antonia caído en un terraplén a lado de la carretera. Grandes detalles que sirven para componer el puzzle que Enrique Llamas ha ido montando con maestría en estas escasas páginas.
El final se eterniza, como si fuera una secuencia de cine de intriga o la descripción detallada de la preparación de un crimen, movida por la mano maestra de un director con oficio. Es el último día del colegio, cuando se dan las notas a los niños y empiezan las vacaciones. Las últimas horas de clase se alargan para desesperación de Héctor, que solo está esperando el sonido de la última campana de clase para salir disparado hacia su casa de Madrid. La tensión se alarga. Los niños "se saben con la batalla ganada" y no respetan ni la jornada escolar ni a su maestro. Sagrario y Federico esperan a Héctor para acompañarle e indicarle la salida hacia Madrid, pero se encuentran a una multitud con malas intenciones hacia el Bombilla. ¿Qué pretenden, ahora que se va?¿No se conforman con quemar el bosque y acabar con la vida de los dos guardias civiles? ¿También quieren vengarse de las supuestas afrentas que no ha cometido?
Esa parte queda cerrada, o tal vez cerrada en falso, pero la novela continúa y lo hace con unas páginas que casi toman forma de apéndices: el descubrimiento de las causas de las muertes de los ciervos o, por ejemplo, el personaje, real o imaginado, de Javier Román, dibujado con unas características contradictorias. También protagonista a veces, cuando asume como propio el relato de lo que Héctor vivió en Somino, aunque misteriosamente al final de la segunda parte este dice: "Doy por hecha mi vida anodina y a Javier Román. Y nunca lo he visto. Solo he oído hablar de él."
Me siento realmente confundido con estas palabras. ¿Existe o no Javier Román? ¿Por qué el autor cuestiona varias veces su existencia? Enrique Llamas le presenta
0 notes
t-aprendendoaler · 4 years ago
Text
A Metamorfose - Franz Kafka
Situação kafkiana: “uma situação onde uma pessoa comum se vê controlada por um poder mais forte que ela. que muda sua vida, sem saber porquê, nem como se defender.”
A escrita de Kafka é impressionante. Ele nos apresenta uma situação absolutamente grotesca porem inserida em uma narrativa direta e objetiva, e assim, retratando o inimaginável de forma casual. 
Gregor Samsa em uma manhã acorda metamorfoseando em um terrível inseto. É interessante notar que apesar de ter consciência de sua situação, as suas preocupações são direcionadas apenas ao seu atraso para o trabalho e para a reação de sua família; e é aqui que começam as diversas interpretações possíveis para essa novela. 
A sua atual aparência resulta na sua invalidação e na perca do seu lugar na sociedade, Gregor só é importante enquanto é útil perante os moldes do capitalismo, quando ele perde esse posto ele é martirizado e diminuído ate sua morte. Também existe a interpretação onde o estado de Sansa é uma representação da depressão, sua família sem entender o motivo da metamorfose, se afastam e escondem ele com vergonha, sem ao menos tentar perguntar sua opinião; é impressionante como eles assumem que Gregor perdeu sua antiga consciência e se recusam a pensar que ele pode ainda ser o mesmo dentro do corpo de inseto.
É um livro pra se ler varias vezes e tirar algo novo em todas elas.
0 notes
pipocacompequi · 7 years ago
Text
THE NIGHT OF: REALIDADE AMARGA
Tumblr media
Certas cenas são emblemáticas e explicam bem o espírito desta ótima minissérie, de oito capítulos, aposta ousada do canal HBO, para suprir o horário nobre deixado pela série “Game of Thrones” (entre a sexta e a sétima temporadas), além é claro dos temas espinhosos que propõe. Na primeira delas, o advogado “porta de cadeia” Jack Stone, interpretado pelo ótimo ator John Turturro, vai até um abrigo de animais abandonados, uma espécie de Centro de Zoonoses, e deixa um gato para adoção, pois, por ser alérgico, não pode ficar com o animal. Mesmo assim, questiona o dono do local sobre o período que o felino ficaria ali até ser sacrificado. Uma semana é o prazo máximo. Antes dele sair, notamos seu olhar de misericórdia frente ao destino do animal. Os gatos ficam na parte de trás do abrigo e, para chegar lá, é preciso passar por um longo corredor cheio de gaiolas, onde cães esperam pelo mesmo destino. Os fortes latidos deixam em estado de pânico não só o novato morador do lugar, mas também o seu doador.
Tumblr media
Neste mesmo capítulo presenciamos a situação de um jovem tomar praticamente as mesmas proporções e dificuldades por que passa o felino. Acusado de ter matado uma garota, a jovem Andrea (Sofia Black-D'Elia), depois de uma noite regada a drogas e sexo, o jovem paquistanês Nasir “Naz” Khan – Riz Ahmed, ator recentemente visto em “Rogue One, Uma História Star Wars”, é levado para uma prisão de segurança máxima, ainda que ele afirme não ser o culpado pela morte da jovem, em uma audiência de custódia. Além disso, seus problemas só estão começando, pois em virtude da proporção que o caso tomou, a notícia da garota estuprada e morta, com requintes de crueldade, chega voando pela mídia através da TV instalada na área de recreação do presídio. Nasir, apesar do benefício da dúvida, se tornou “o gato” dentro daquele recinto. O novato. A carne fresca.
Tumblr media
Esta é “The Night Of”, minissérie da HBO americana, inspirada na produção britânica “Criminal Justice”, com produção executiva do finado ator James Gandolfini, o eterno Tony Soprano, do seriado “Família Soprano”. Aliás, muito do que aparece nesta minissérie, em se tratando de questões técnicas, é uma referência à série da máfia, bem como de filmes do gênero noir. A começar pela câmera que foca as personagens em perspectiva e desfoca o restante da tela, nos conduzindo o olhar, como se soubéssemos pelo que eles estão passando, num sentido mais íntimo. Outro quesito é o uso de uma fotografia chapada, com tons escuros, que ressaltam a atmosfera claustrofóbica por que passa o jovem paquistanês dentro do presídio. A mesma só ganha contornos mais claros quando estamos do lado de fora do presídio, uma contraposição inegável, quando acompanhamos os pais de Nasir, que não entendem muito bem o porquê do filho bom e estudioso estar naquela situação, bem como de seu advogado, que tenta encontrar algo que confirme e legitime a inocência de seu cliente.
Além desta linha narrativa, que perpassa pela busca incessante em provar a inocência de Nazir, há outras que aumentam o seu escopo e dão maior sustentação à trama. Somos então levados a conhecer outros pontos de vista não só sobre a noite do crime, mas também das pessoas que cuidarão do caso, como o viés da acusação, na figura do detetive Dennis Box (Billy Camp). Ele não tem dúvidas a respeito do ocorrido, pois todas as evidências apontam para Nasir, e quer finalizar o caso o quanto antes, uma vez que sua aposentadoria está prestes a sair e não quer que sua última ocorrência paire numa dúvida.
Tumblr media
Temos também a visão do defensor de Nasir, Jack Stone, que “estava no lugar certo, na hora certa”. Após conhecer o garoto, enquanto estava sob custódia na delegacia, vê esse caso como sendo aquele que pode tirá-lo do anonimato, dando-lhe a condição de ser um advogado de renome, e não simplesmente um aproveitador de causas simples. É interessante notar que a personagem tem um problema de pele, uma espécie de lepra que o acompanha por anos a fio. Ninguém chega perto dele, pensando ser contagioso. Ele é um pária no sistema, mesmo entre seus pares. No momento em que consegue “pegar o caso” de Nasir e começa a trabalhar nele, fazendo uma investigação paralela, a mesma começa a sarar. A metáfora, neste caso, é inevitável. É como se Jack estivesse curando a si próprio e tomando um novo rumo em sua vida como advogado.
O outro ponto de vista está relacionado à como funciona o processo jurídico americano. No tribunal de acusação, mostrado em uma das cenas do segundo capítulo, por exemplo, é significante perceber como toda a logística daquele lugar lembra uma fábrica, com suas engrenagens justapostas para que o sistema funcione da maneira a evitar atrasos. Há dezenas de processos a serem julgados. O ambiente é barulhento, sem qualquer tranquilidade para uma imparcial e ideal apreciação, e é necessário que as coisas andem. E antes mesmo de terminar o julgamento, o juiz determina o início do próximo. O sistema é injusto em sua raiz. Tudo nele é falho. Aqui indico a leitura do livro “O Processo”, de Franz Kafka, para que se possam fazer algumas relações entre a minissérie e a obra kafkiana, pelo viés do sistema judiciário.
Tumblr media
E por conta desse sistema, o protagonista Nasir, que não tem antecedentes criminais, mas tem dezenas de provas que o colocam como o principal suspeito do crime, além do fato de ser um paquistanês muçulmano, é sentenciado a permanecer numa penitenciária de segurança máxima até o dia do julgamento. Temos aqui o tema da discriminação étnico-racial, algo enraizado em praticamente toda a sociedade americana, pós 11 de setembro.
O fato de a minissérie ser excelente não deriva somente sobre a questão primorosa da técnica empregada, já dita anteriormente, e que também perpassa por outros quesitos como a trilha sonora composta por Jeff Russo, precisa e pontual somente nos momentos mais importantes, e o uso de certos enquadramentos, que nos colocam como cúmplices da reviravolta que se dará na vida do jovem paquistanês, bem como do assassinato da garota (vale lembrar que não sabemos quem a matou, ou sabemos tanto quanto o protagonista Nasir), mas além disso pelo trabalho dos atores principais da trama – John Turturro e Riz Ahmed – que absorveram suas transformações físicas e mentais de tal modo que fazem com que os espectadores criem uma empatia muito relevante em relação a eles e a trama.
Ambos crescem por meio de seus dilemas e problemas a serem solucionados, e nós, como espectadores, seremos cúmplices disso. No caso de Nasir, reconheceremos que não existe um mundo ideal. A igualdade de direitos para todos, inclusive para alguém que não é reconhecido por sua nacionalidade (o protagonista é americano, mas filho de paquistaneses) está longe de ser uma realidade, tanto por conta do que ele passou na noite do crime, quanto pela imperícia na investigação policial, que o levou a ficar trancafiado na prisão. Ele se torna um viciado para sobreviver. Ele perdeu sua essência e sua inocência, e vai carregar as marcas ruins dessa passagem pelo resto da vida. Já no contexto de Jack Stone, agora que seus clientes o procuram, por conta da repercussão do caso com Nasir, é duro ainda ter de trabalhar reconhecendo as falhas e brechas no sistema judiciário, ou do próprio sistema penal, que podem impactar a vida de diversas pessoas, inclusive a dele, como é retratado por sua doença de pele, que reaparece ferozmente ao final da minissérie. De fato, a minissérie nunca foi feita para ter um final feliz. E isso é uma realidade amarga.
Tumblr media
THE NIGHT OF – Minissérie Original HBO
Título Original: The Night Of
Gênero: Suspense, Policial
País: EUA
Duração: 8 Capítulos - +/- 60 minutos por capítulo / Ano de Produção: 2016
youtube
Tumblr media
Leandro Alves é acadêmico do curso de Cinema e Audiovisual da Universidade Estadual de Goiás e graduado em Letras pela mesma instituição. Gosta de filmes, séries, desenhos animados, bem como escrever análises e críticas sobre eles. Já colaborou para o jornal O Popular e para a Revista Janela.
1 note · View note
abatelunare · 8 years ago
Text
L’umanità dolente di Kafka
Quando di notte si passeggia per una via e, già visibile da lontano − perché la strada dinanzi a noi è in salita e c'è la luna piena −, un uomo corre verso di noi, noi non lo agguanteremo, anche se è debole e cencioso, anche se qualcuno lo rincorre urlando, bensì lo lasceremo andare. Perché è notte, e non abbiamo colpa se dinanzi a noi la strada è in salita nella luna piena, e oltre tutto quei due hanno forse inscenato la caccia per loro divertimento, forse entrambi inseguono un terzo, forse il primo viene inseguito pur essendo innocente, forse il secondo vuole uccidere, e noi diverremmo complici dell'assassinio, forse i due non sanno nulla l'uno dell'altro e corrono a letto ciascuno sotto la propria responsabilità, forse sono sonnambuli, forse il primo è armato. E infine, non abbiamo forse il diritto di essere stanchi, e non abbiamo bevuto tanto vino? Non ci par vero che anche il secondo sia ormai scomparso dalla vista.
 Nei racconti di Franz Kafka c’è qualcosa che impedisce loro di crescere e di conchiudersi. L’autore stesso ne era consapevole. Basta leggere Undici figli, per averne conferma. La sua scrittura soffre della sindrome da incompiutezza che affligge buona parte della narrativa novecentesca. A un certo punto, finisce per abortire. E rimane lì, aperta come un portone spalancato. Due che passano correndo è un suo mini-racconto dall’ambientazione notturna e indistinta. Le indicazioni relative al luogo in cui si svolge sono imprecise, volutamente generiche. Kafka adotta un inconsueto plurale maiestatis, una specie di impersonalità pluralizzata. Probabile indizio della volontà di identificarsi con l’umanità dolente. Un uomo che urla ne insegue un altro, fragile e malmesso. I “narratori” scelgono di non immischiarsi, abbandonando quei due al loro destino, qualunque esso sia. Si avverte in questo atteggiamento la tendenza kafkiana ad accettare come perfettamente naturali eventi che invece dovrebbero apparire bizzarri o inquietanti. L’attenzione si concentra, comunque, più sull’inseguito che sull’inseguitore, la cui unica ragion d’essere è la presenza del primo. Nel secondo capoverso, dopo avere ribadito l’ambientazione notturna, gli “osservatori” avvertono la necessità di giustificarsi (non abbiamo colpa), anche se in realtà non ce ne sarebbe bisogno, perché in fondo ognuno è libero di comportarsi come meglio crede nei confronti del prossimo. Segue un elenco di ipotesi, ognuna delle quali introdotta da un forse. Si pensa immediatamente alla più comoda. È tutta una finta: quei due si stanno divertendo. Un modo per tranquillizzarsi, scaricando la coscienza, legittimando ulteriormente la decisione di restarne fuori. La paura di poter essere complici di un delitto è palpabile. L’unica certezza è proprio l’incertezza: forse i due non sanno nulla l'uno dell'altro che è poi anche la condizione in cui si dibattono i “narratori”. I quali nella conclusione rimangono sulla difensiva. Espongono nuove giustificazioni, rivendicano il diritto alla stanchezza, all’ebbrezza, all’indifferenza, ma soprattutto al sollievo: non ci par vero che anche il secondo sia ormai scomparso dalla vista. Anche stavolta l’hanno scampata. Fino a quando, non si sa.
6 notes · View notes
pier-carlo-universe · 5 months ago
Text
Op Oloop – Un viaggio nei meandri della mente e della vita attraverso la penna di Juan Filloy. Recensione di Alessandria today
Con "Op Oloop", Juan Filloy ci regala una storia affascinante e surreale, dove il protagonista si perde nel calcolo e nell'ossessione per la perfezione.
Con “Op Oloop”, Juan Filloy ci regala una storia affascinante e surreale, dove il protagonista si perde nel calcolo e nell’ossessione per la perfezione. Recensione:“Op Oloop” di Juan Filloy è un romanzo straordinario che si colloca nel panorama della narrativa sperimentale latinoamericana, offrendo una narrazione che unisce il surreale con il filosofico. Il protagonista del libro, Op Oloop, è un…
0 notes
pangeanews · 5 years ago
Text
“Ci hanno raccontato un altro Kafka”. Viaggio nell’infinito kafkiano: come scardinare l’esegesi limando un verbo
Franz Kafka si presta alla tortura degli interpreti; è postumo per questo, si fa divorare dai posteri in forma orizzontale. I suoi racconti sono una profezia, vanno decrittati come i rotoli del Mar Morto, comparando i frammenti deposti nei diari e nei quaderni, alimentando la sapienza con le varianti. Kafka, in effetti, si fa leggere come un testo biblico – anzi, vuole farsi abitare, fomentando eresie.
*
I verbi, come il sogno, hanno confini labili: forse è sull’ombra che va edificato un palazzo, su ciò che fugge rivelandosi al contrario va fondata una costituzione. Kafka insegna che stare a quattro zampe non è meno nobile della statura eretta, in effetti.
*
Al di là delle affinità ‘filologiche’ – o di fisiologia narrativa – che spiega il curatore, il trittico di racconti kafkiani editi da Marietti 1820 come Un messaggio imperiale – perché è il messaggio, che non appartiene ad alcun imperatore, a essere imperiale – sembrano costituire un grumo unico, solido. Il gemellaggio non riguarda solo la dedizione a un Oriente mistico – Durante la costruzione della muraglia cinese – che prevede le gite orientali di Borges e sintetizza il gusto di Erodoto alla schiettezza degli Annali di Confucio. Nei tre racconti – il terzo è La tana – il cuore è una costruzione labirintica (“il labirinto era tracciato solo a grandi linee”), che non difende, soffoca. L’uomo è fatto per le pianure, non per l’imbarbarimento metropolitano – un albero è più salutare di un muro. D’altronde, i racconti di Kafka non sono solubili in una risposta – perfino formale. Chiedono al lettore una pratica.
*
Se gli ultimi due racconti si dedicano a qualcosa di solido, di insondabile (la muraglia, la tana), il primo riguarda qualcosa di immateriale, un messaggio sussurrato dall’imperatore di un impero indefinito all’orecchio del messaggero. La memoria può essere più potente della muraglia? Non è più labirintica della tana la mente di un uomo? Il messaggero fugge verso l’aperto, ma l’uscita gli è preclusa: “e di nuovo scale e cortili; e di nuovo un palazzo; e così via per millenni; e se infine si precipitasse fuori dall’ultima porta – mai e poi mai può accadere – davanti a lui vi sarebbe solo la residenza imperiale, il centro del mondo, collocata sul cumulo dei suoi detriti”. La costruzione, come la legge, soggioga, è una museruola: sapremo ritrovare la violenta levità dei giaguari? Il potere, per definirsi e difendersi, muore per inghiottimento; l’onnipotente è sazio accettando il predominio dell’erba, gli basta il volo di una poiana.
*
Vito Punzi – scrittore e traduttore: tra i suoi lavori ricordo il Carteggio tra Hannah Arendt e Hermann Broch, di quest’ultimo sta rivedendo le magnetiche poesie – fa crollare l’architettura esegetica di Kafka modificando un verbo. Come si toglie il mattoncino alla base di un castello, ridefinendone l’equilibrio. La frase che chiude Un messaggio imperiale traduce il racconto in paradosso. “Si dice che l’imperatore a te, il solitario, il misero suddito, l’ombra fuggita nella lontananza più lontana e minuscola al cospetto del sole imperiale, proprio a te l’imperatore abbia inviato un messaggio dal suo letto di morte”: così comincia il testo. Dopo aver sfidato le pianure dell’assurdo, certi che il messaggero non può – perché la dimora imperiale è vasta millenni – raggiungere quel tu, cioè me, lettore, la visione, bellissima: “Eppure tu siedi alla tua finestra e te lo immagini quando viene la sera”. Qui Punzi compie una piccola rivoluzione. Le versioni canoniche (tra le tante, scelgo quella di Ervino Pocar) traducono così: “Tu, però, stai alla tua finestra e lo sogni, quando scende la sera”. Sognare e immaginare appartengono a sfere del conoscere e del sentire simili ma differenti: in Kafka ogni parola è distillato, stillicidio.
*
Certo, è Kafka a intrigarsi nel fraintendimento, a impollinare ipotesi. La sua parola, tanto nitida, è tormentata di spiragli. Anche la spada, infine, si confonde col vento. Ed è bene. (d.b.)
*
Intanto, perché proprio questi tre racconti?
Una scelta venuta di conseguenza ad un cortocircuito causato da un verbo presente a conclusione del brevissimo racconto-parabola Un messaggio imperiale, scritto nel 1917 e pubblicato due anni dopo su rivista. Kafka inserì poi quel testo all’interno di un racconto più lungo, Durante la costruzione della muraglia cinese, scritto nello stesso periodo, ma rimasto inedito fino al 1931: volontà kafkiana che aveva un senso assecondare e che ho assecondato. Il terzo racconto, La tana, apparentemente senza relazione con gli altri due, è parte anch’esso del lascito inedito pubblicato da Max Brod e Hans Joachim Schoeps nel 1931. Scritto negli ultimi mesi del 1923, alcuni mesi prima della morte, anch’esso si cimenta con piani architettonici ed edificatori di difesa, seppur sotterranei, diciamo pure, fuor di metafora, interiori.
E poi: cosa hai ‘scoperto’, pensando al linguaggio come un oceano di continue e paradossali esplorazioni? Intendo. Sull’ultima, magnifica, frase di Un messaggio imperiale (anche il titolo hai cambiato!), compi una specie di stravolgimento. Come mai?
La “scoperta” ha riguardato, come dicevo, un verbo usato da Kafka nell’ultima frase di Un messaggio imperiale (che qualcuno in passato, chissà perché, ha tradotto con Un messaggio dell’imperatore), lì dove Kafka indica l’azione del “tu” che attende (inutilmente, sembrerebbe) il messaggio imperiale, con il verbo sich erträumen. Se si fosse trattato di träumen, non ci sarebbe stata alcuna discussione possibile: ci saremmo trovati di fronte al “sognare” (questa la scelta di fior di traduttori come Pocar, Zampa, Schiavoni), inteso come attività inconscia: a quel “tu” dunque non resterebbe che la consolazione del sogno. Ma Kafka scelse sich erträumen, che ha come sinonimo il verbo wünschen, “desiderare”, quindi pensava quel “tu” afferrato da un’attività conscia, immerso in un’azione immaginativa cosciente impregnata di un forte contenuto di desiderio. C’è tanta letteratura intorno al tema fedeltà o infedeltà, nella traduzione. In questo caso ho scoperto quanto, forse nel tentativo onesto di interpretarne visioni, incubi e parabole, nella costruzione dell’universo kafkiano in lingua italiana si sia spesso deciso per l’infedeltà al testo di partenza, finendo però, azzardo io, col raccontare un “altro” Kafka.
Cosa ti ha detto, tra le tagliole della lingua, oggi, Kafka? Perché dovremmo leggerlo, ancora? Perché dovremmo scavarlo e tradurlo?
Un esempio, da Durante la costruzione della muraglia cinese questa volta, per dire il motivo per cui vale la pena rileggerlo, in originale anzitutto, e quindi tradurlo. È lì che a un certo punto Kafka contrappone i confini “angusti” del “raziocinio” dell’io narrante al territorio da cui quello s’immagina essere circondato, usando un sostantivo, das Endlose, l’“infinito”. Chissà per quale motivo, traduttori miei predecessori hanno scelto di ridurre quel sostantivo ad attributo di das Gebiet, “territorio”. Un tradimento della volontà del praghese di mettere in relazione “io” e “infinito” che non ha ragione d’essere e soprattutto svia, allontana, perché l’“infinito” kafkiano (paradosso dei paradossi) ha sostanza in sé, non necessita di attributi. Può esserlo, ma non è solo spaziale. È anche tempo. Forse soprattutto. Altrimenti non sarebbe infinito. In fondo la lingua di Kafka è sempre nuova (come lo è quella di ogni grande scrittore), è sempre disvelatrice di nuovi significati, proprio perché costante “combattimento” tra confine e infinito. Ecco perché ritengo valga la pena leggerlo, e rileggerlo.
Piuttosto: cosa vorresti tradurre, ora?
A questo punto mi piacerebbe continuare a scavare nell’universo linguistico kafkiano, affrontare altri suoi testi, romanzi compresi, perché certo che ne uscirebbero altre “sorprese”.
L'articolo “Ci hanno raccontato un altro Kafka”. Viaggio nell’infinito kafkiano: come scardinare l’esegesi limando un verbo proviene da Pangea.
from pangea.news https://ift.tt/2ZROaOP
0 notes
musicoviniciusrodrigues · 5 years ago
Text
Os 15 melhores livros de contos brasileiros do século 21
A Revista Bula realizou uma enquete com o objetivo de descobrir quais são, segundo os leitores, os melhores livros de contos brasileiros publicados no século 21. A consulta foi feita a colaboradores, assinantes — a partir da newsletter —, e seguidores da página da revista no Facebook e no Twitter. Foram consideradas apenas as obras publicadas a partir do dia 1º de janeiro de 2001, sendo apenas um livro por autor. Nos casos de autores que tiveram mais de um livro citado, foi considerado aquele que obteve o maior número de indicações na pesquisa. O critério de desempate, quando necessário, foi a nota atribuída aos títulos na rede social de leitura Skoob. Os livros foram divididos em cinco categorias, de acordo com o número de indicações: +120, +80, +70, +50, +40 e +30. As sinopses são adaptadas das utilizadas pelas editoras.
Foram lembrados autores de diferentes regiões do país, em especial Sul e Sudeste. Rio de Janeiro e Rio Grande do Sul foram os estados com maior número de autores citados, com cinco indicações cada; seguidos de Minas Gerais e Paraná, que tiveram dois autores indicados. O estado de Sergipe teve um autor listado. Entre os escritores cujas obras foram selecionadas, apenas um não está vivo: Antônio Carlos Viana, que morreu em 2016, aos 72 anos. Com relação à idade, o mais velho é o paranaense Dalton Trevisan, que tem 93 anos. Já o mais jovem é Tobias Carvalho, com 22 anos de idade.
Livros que obtiveram mais de 120 indicações
Anjo Noturno (2017), de Sérgio Sant’Anna
Nas nove narrativas reunidas em “Anjo Noturno”, Sérgio Sant’Anna explora, entre contos, memórias e novelas; temas díspares e entrelaçados, como morte e vida, infância e velhice, paixão carnal e amor fraternal. O conto “Talk show” narra a participação de um escritor em um programa de auditório, numa sucessão de situações embaraçosas que se desenrolam tanto no palco quanto nos bastidores. Já em “Augusta”, o autor relata o encontro entre um professor universitário e uma produtora musical numa festa em Copacabana. A mesma atmosfera lasciva marca outras histórias, como “Um conto límpido e obscuro”, em que o protagonista recebe a visita inesperada de uma amiga artista plástica com quem não tem relações amorosas há cerca de dois anos. Nesse universo de tensão, entre desejo e profunda solidão, o autor percorre suas próprias memórias e anseios.
Livros que obtiveram mais de 80 indicações
Aberto Está o Inferno (2004), de Antônio Carlos Viana
Nesta coletânea, Antônio Carlos Viana apresenta 33 contos, ambientados ora em paisagens áridas e abafadas do interior brasileiro, ora na França ou no Marrocos. O denominador comum é uma constante sensação de perda — da infância, da pureza, da alegria — e a descoberta, por vezes brutal, do sexo e do mundo, sintetizada no título do livro, extraído de uma passagem da Bíblia: “Aberto está o inferno e não há véu algum que cubra a perdição”. Na prosa do autor, espelha-se um Brasil miserável, mas exuberante, que parece saltar das páginas do livro para a imaginação do leitor. Antônio Carlos Viana foi integrante da geração de escritores que, nos anos 1970, fizeram da narrativa breve um espaço de experimentação na literatura brasileira. Ganhador por duas vezes do Prêmio da Associação Paulista de Críticos de Artes, Viana morreu em 2016, em sua cidade natal, Aracaju, Sergipe.
Livros que obtiveram mais de 70 indicações
Deixe o Quarto Como Está (2002), de Amilcar Bettega Barbosa
Um homem toma um trem para sair da cidade, mas não consegue deixar o perímetro urbano. Outro personagem acorda em seu quarto e percebe que está acompanhado de um crocodilo. Uma casa redesenha a própria arquitetura como se estivesse viva. Nas histórias de “Deixe o Quarto Como Está”, a lógica cotidiana abre espaço para estranhos eventos e relações que configuram um novo mundo. Alguns dos contos, como “Autorretrato”, “Aprendizado” e “Para salvar Beth”, permitem uma leitura realista. Outros adentram sem hesitação o terreno do fantástico: “Hereditário”, “O crocodilo”, “O rosto”, e “O encontro”, fantasias kafkianas narradas com o humor de um cineasta surrealista. Há também relatos que ficam entre o real e a fantasia, como “Exílio”, “Correria” e “Espera”. O livro recebeu o Prêmio Açorianos de Literatura e menção honrosa no Prêmio Casa de Las Américas, em Cuba.
O Sol na Cabeça (2018), de Geovani Martins
Nos 13 contos do livro, deparamos com a infância e a adolescência de moradores de favelas — o prazer dos banhos de mar, das brincadeiras de rua, das paqueras e dos baseados —, moduladas pela violência e pela discriminação racial. Geovani Martins narra a vida de garotos para quem às angústias e dificuldades próprias da idade soma-se a violência de crescer no lado menos favorecido da “Cidade partida”, o Rio de Janeiro das primeiras décadas do século 21. “Histórias de muitos Brasis se cruzando, reinventando a língua por meio do encontro. “Tenho facilidade para me adaptar às muitas formas de falar o português brasileiro e como já morei em favelas sob comando de todas as três facções do Rio, e ainda numa dominada pela milícia, acabei tendo contato com as particularidades de cada região.”
A Bicicleta de Carga e Outros Contos (2018), de Miguel Sanches Neto
Um turista na Espanha acaba se tornando amigo de um casal de brasileiros: a possibilidade de um triângulo amoroso se insinua o tempo inteiro, mas pode muito bem ser algo imaginário, assim como a paixão de um fazendeiro de origem holandesa por uma famosa socialite, que ele conhece através de um quadro. Nesta coletânea, proliferam-se narrativas de amores que não se concretizam, e de desejo sexual que, para além do prazer, traz angústia. Exercendo pleno domínio das formas breves, Miguel Sanches Neto constrói aqui uma série de situações verossímeis em sua sordidez de detalhes envolvendo personagens que compartilham uma profunda e desoladora solidão. O que está em jogo é o caráter ambíguo e opaco da linguagem. É através de tudo o que não se revela que as criaturas a quem o autor deu vida mostram-se tão humanas.
Livros que obtiveram mais de 50 indicações
Sem Vista Para o Mar (2014), de Carol Rodrigues
Em “Sem Vista Para o Mar”, Caroline Rodrigues reúne 22 contos ficcionais. Neste livro, não existe visão dicotômica de mundo: a autora, antes, se preocupa em pincelar suas personagens com qualidades que vão além de um discurso moral, econômico ou social. Por mais que a concretude das realidades apresentadas seja parte inerente da história, não funciona como ponto de partida. Os contos são também permeados de imprevistos, encontros e desencontros. Os textos são curtos, numa prosa que não respeita pontuações e que, em dados momentos, se aproxima da poesia. Ao longo dos contos, a autora apresenta personagens que soam familiares a qualquer leitor. O livro ganhou o Prêmio Jabuti e também foi premiado pela Biblioteca Nacional, transformando Carol Rodrigues em uma das maiores revelações da literatura brasileira contemporânea.
Alguns Humanos (2018), de Gustavo Pacheco
Em seu primeiro livro, Gustavo Pacheco reúne onze histórias inquietantes. O leitor viaja do Bornéu ao Bronx, de Moçambique a Salvador, da Alemanha à Cidade do México, de Pequim a Buenos Aires. Nestas geografias cruzam-se as histórias de Dohong, que ficou doente depois de a mãe morrer de desgosto; do escravo Zakaly, que se deslumbra com o que lhe dão de comer; de Kuek, um índio botocudo; de Julia Pastrana, a mulher mais feia do mundo; de Li Xun, funcionário público às voltas com questões teológicas; do taxidermista Thomas Manning, que não gosta de computadores; e de Moacyr, que odeia Isaías e conversa com Deus. Num estilo eclético, o autor cria um retrato da humanidade. O livro foi o vencedor do Prêmio Clarice Lispector, promovido pela Fundação Biblioteca Nacional.
Pico na Veia (2002), de Dalton Trevisan
Em “Pico na Veia”, Dalton Trevisan usa contos curtos e secos, construídos com ironia cortante e humor cáustico, para lançar um olhar objetivo sobre a condição humana, em tudo o que esta tem de oculto e ambíguo. São textos que retratam a realidade do Brasil, onde a miséria, o desemprego e o desespero diante da desesperança provocam suicídios, humilhações, medo, amargura e exploração sexual. A obra é uma coletânea composta de cerca de 200 contos. Alguns mais longos, mas, em sua maioria, o livro é uma sucessão de miniestórias. Nelas, os temas recorrentes de Trevisan reaparecem: os desastres do amor, os infernos particulares, a guerra dos sexos, as cenas da vida cotidiana e a condição humana. Dalton Trevisan, autor de mais de 40 livros, foi eleito por unanimidade o vencedor do Prêmio Camões de 2012, ano em que também recebeu o Prêmio Machado de Assis, pelo conjunto de sua obra.
Livros que obtiveram mais de 40 indicações
Cavala (2009), de Sérgio Tavares
Dizem que literatura não se faz com bons sentimentos. Dessa forma acontece em “Cavala”, livro de estreia de Sergio Tavares. Não que os personagens criados pelo autor sejam maus; porém, tomados por desvios complexos e compulsões sexuais, cometem atos violentos — ao mesmo tempo em que buscam uma espécie de refúgio em amores, lembranças ou dores. Foi a partir de sua vivência na profissão de jornalista, em reportagens e entrevistas, que o autor retirou a inspiração para compor as tramas e personagens das quatro densas narrativas do livro. Escritas em primeira pessoa, as histórias conduzem o leitor por situações onde o real e a loucura se equilibram numa linha tênue. Assim, por exemplo, é o primeiro conto, que empresta o título ao livro, protagonizado por uma jovem modelo, bulímica e em surto psicótico. “Cavala” ganhou o Prêmio Sesc de Literatura, na categoria “Contos”.
As Coisas (2018), de Tobias Carvalho
Vencedor do Prêmio Sesc de Literatura, “As Coisas” traz uma costura de vivências humanas sob a ótica de um jovem homossexual. O personagem constante dessas histórias trabalha, viaja, estuda, cruza ruas de metrópoles agitadas, passa horas em aplicativos de encontros sexuais. Não há maquiagens para a solidão, nem disfarce para o sexo. Ele sente, ele quer, ele ganha e perde, transformando-se de história em história e construindo um arco narrativo que alicerça todo o livro. “Acredito que andamos em uma trajetória de trazer mais representatividade para as artes, e, nesse processo, falar sobre aceitação foi importante. Mas acho também que dá para virar a página, falar sobre o que vem a partir daí, naturalizar que as relações homossexuais existem, mas estar atento às particularidades que elas trazem.”
Livros que obtiveram mais de 30 indicações
Eu Perguntei pro Velho se Ele Queria Morrer (2009), de José Rezende Jr.
Os contos de “Eu Perguntei pro Velho se Ele Queria Morrer” são, ao mesmo tempo, atraentes e perturbadores. Com jogos de linguagem e imagens marcantes, José Rezende Jr. constrói esse livro a partir de 12 contos de amor, dos mais diferentes tipos. Entre eles, destacam-se o que dá nome ao livro, um embate dramático entre um filho adotivo e seu pai doente; “Vida, morte e assunção de Nossa Senhora”, que narra a história de uma companhia de teatro que viaja em caravana pelo Brasil; e “Um conto de horror”, que apresenta ao leitor o dilema de uma mãe que não reconhece mais o filho como sendo seu. Essa foi a segunda obra escrita pelo jornalista José Rezende Jr., com a qual o autor ganhou o Prêmio Jabuti, na categoria “Contos”.
Amora (2016), de Natalia Borges Polesso
Em “Amora”, a autora pretende mostrar que o encontro consigo mesmo, sobretudo quando ocorre fora dos padrões, pode trazer desafios ou tornar impossível seguir sem transformação. É necessário avançar, explorar o desconhecido, desestabilizar as estruturas para chegar, enfim, ao sossego de quem vive com honestidade. Os contos de “Amora” não versam apenas sobre relações homossexuais entre mulheres. Também estão presentes na obra o maravilhamento, o estupor e o medo das descobertas. Natalia Borges Polesso estreou na literatura com “Recortes para Álbum de Fotografia sem Gente”, livro que ganhou o Prêmio Açorianos. Com “Amora”, Natalia venceu o Prêmio Jabuti. Em 2017, foi escolhida pelo Hay Festival da Colômbia como um dos 39 escritores com menos de 40 anos mais promissores da América Latina.
A Cidade Dorme (2018), de Luiz Ruffato
Luiz Ruffato adentra o labirinto das narrativas breves em “A Cidade Dorme”. A coletânea reúne 20 histórias escritas durante 15 anos pelo autor. Juntas, compõem um painel sobre a passagem do tempo, as relações familiares e a memória. A partir de um ponto de vista pouco presente na literatura brasileira, o do trabalhador urbano, Ruffato tece uma reflexão contundente sobre a perda da inocência interiorana e as dificuldades da luta pela sobrevivência nas periferias das grandes metrópoles brasileiras. A meninice nos anos 1960; histórias sobre futebol e a ditadura; questões ligadas à violência urbana; e o universo das drogas se mesclam ao longo do livro. As agruras vividas pela classe trabalhadora são um tema recorrente nas obras de Luiz Ruffato, um dos mais importantes autores brasileiros, ganhador de honrarias como o Prêmio Jabuti, Prêmio Casa de las Américas e Prêmio Internacional Herman Hesse.
Essa Coisa Brilhante que é a Chuva (2012), de Cíntia Moscovich
Cíntia Moscovich apresenta ao público um volume que reúne contos inéditos escritos ao longo de seis anos. Com originalidade, a autora aborda temas corriqueiros e inevitáveis: o ciúme do filho pela mãe, a adoção de um cachorro abandonado, um jovem casal às voltas com uma reforma na casa. Valendo-se do humor e da tragédia, Moscovich criou contos coesos e divertidos, que mais parecem uma só narrativa. “Desde o início, quis um enxugamento neste livro. Uma coisa menos causa e lógica. Uma escrita mais objetiva, essencial, sem excessos. Queria falar sobre uma classe média, daquela em que nada sobra, mas também nada falta. Ao pegar essa gente mediana, consigo representar toda a sociedade.” Segundo Fabrício Carpinejar, que assina a orelha do volume, “Esse livro é um retrato antológico de Cíntia Moscovich (…), um clássico”.
Contos de Mentira (2010), de Luisa Geisler
“Contos de Mentira”, estreia literária de Luisa Geisler, é um livro formado por pequenas histórias densas, que retratam o ser humano sozinho, acompanhado de sua incompletude. Ao todo, a coletânea reúne 17 textos, alguns sobre pequenas mentiras metafóricas, outros sobre pessoas que vivem uma existência totalmente de mentira. Histórias que falam de sentimentos universais. São contos breves, com ares de curtas cinematográficos, cheios de desafios e determinação. Não se tratam de narrativas convencionais, com princípio, meio e fim. Cada história começa no meio ou em um ponto qualquer do seu percurso, sem que nenhum fato marcante nos diga: neste ponto tudo teve início. Cabe ao leitor essa decisão. Avaliado pelos escritores Raimundo Carrero e Marina Colasanti, o livro foi o vencedor do Prêmio Sesc de Literatura, na categoria “Contos”.
Os 15 melhores livros de contos brasileiros do século 21 publicado primeiro em https://www.revistabula.com
0 notes
tqvcancun · 7 years ago
Text
Oracle boicotea el uso de Open Source en la Administración de Estados Unidos
Oracle tiene una relación bastante particular con el Open Source. Por un lado, tiene y desarrolla OpenJDK (que ha mejorado mucho en manos de Oracle sin ser su único contribuidor), VirtualBox, MySQL (que posiblemente se mantenga abierto por la presión de Perconna y MariaDB), tiene su propia distribución (Oracle Linux) y hasta es un contribuyente importante al kernel Linux, pudiéndose destacar la creación btrfs.
Sin embargo, la compañía también tiene muchas sombras, a veces llegando a jugar sucio. Por un lado, despreció buena parte del legado de Sun, empezando con un OpenOffice que fue bifurcado para crear LibreOffice, unos ataques muy difíciles de justificar contra CentOS por la falta de argumentos sólidos, ciertas declaraciones polémicas, sus intenciones de deshacerse de NetBeans y hasta un “premio” que le dieron por “enemigo del Open Source”.
El último episodio de Oracle han sido sus movimientos contra el incentivo del Open Source dentro de la administración federal estadounidense. Según techdirt, la compañía estaría intentando persuadir a la Administración Trump para que deje de contratar a personas de Silicon Valley y abandone el Open Source. Una situación que resulta totalmente kafkiana si tenemos en cuenta que Oracle tiene una parte muy importante de su actividad corporativa en la propia Silicon Valley.
La mayoría de los pasos positivos dados por la administración federal estadounidense proceden de dos entidades similares: US Digital Service (USDS) y 18F. Aunque ambas organizaciones son atribuidas a la Administración Obama, también han recibido el apoyo de Donald Trump para modernizar los sistemas informáticos del gobierno. Esto muestra que no están politizadas y que se rigen por criterios puramente tecnocráticos.
La Administración Trump ha emitido una orden ejecutiva para obtener retroalimentación sobre cómo modernizar la infraestructura informática del gobierno. Fue la GSA la que puso en marcha el mecanismo a través de GitHub, sin embargo, muchos quedaron bastante disgustados al ver la respuesta de Oracle al respecto. La compañía fundada por Larry Ellison ha intentado “desmitificar” cosas en torno al Open Source, destacando techdirt lo siguiente:
Falsa narrativa: El gobierno debe intentar emular la innovación acelerada de Silicon Valley. Silicon Valley está compuesto por vendedores de IT que en su mayoría suelen fallar. La USG no es vendedora de tecnología ni una startup. Bajo ninguna circunstancia se tendría que intentar convertir a la USG en una vendedora de tecnología. La USG nunca podrá desarrollar, soportar o asegurar productos económicamente o a escala. El gobierno ha desarrollado productos que no están sujetos a pruebas extensivas en el mercado comercial. En su lugar, el gobierno tendría que intentar emular las mejores prácticas del amplio sector privado de los clientes de Fortune 50, que tienen una tecnología comercial exitosa, competitiva, evaluada, procurada y asegurada.
Este argumento apunta en dos direcciones. Primero, que el desarrollar soluciones personalizadas desde cero no resulta lo mejor en muchos casos. Segundo, que el personal informático que trabaja para la administración federal no tiene conocimientos sobre desarrollo de software, por lo que serían incapaces de construir una solución a la altura de las necesidades del gobierno. Por otro lado, desde techdirt argumentan que el gasto de cientos de millones de dólares en sistemas informáticos de terceros no ha servido para que el FBI tenga algo infalible a la hora de combatir cosas como el terrorismo.
Falsa Narrativa: El mandato de usar tecnología Open Source es requerido debido a que la tecnología desarrollada a costa del contribuyente tendría que estar disponible para el contribuyente. Aquí hay una confusión inexplicable entre los “datos abiertos”, que tienen un gran legado en la USG y se deriva de los viejos principios de que la USG no tendría que tener derechos de autor, y las preferencias de la tecnología Open Source, que han sido ampliamente debatidas y rechazadas. No hay tal principio que la tecnología desarrollada o procurada por la USG tendría que estar disponible libremente para todos los ciudadanos, de hecho eso presentaría un gran desincentivo para llevar a cabo negocios con la USG.
Obviamente, Oracle intenta salvar su negocio e imperio creado a través de algunas soluciones privativas, con su SGBD al frente. Decir que el Open Source desincentiva el trabajar con la administración federal es algo que simplemente no tiene pies ni cabeza. FUD en estado puro.
Y esto no es todo, ya que siguiendo la estela del caso de Equifax, Oracle ha argumentado que el Open Source deja expuestas las vulnerabilidades y que por eso es menos seguro, ignorando que aquel caso derivó de no aplicar correctamente un parche que llevaba tiempo publicado, algo parecido a lo ocurrido con WannaCry.
Desarrollar software personalizado y publicando su código bajo una licencia Open Source expone al gobierno a riesgos de seguridad innecesarios, ya que ese código no es “mantenido por una comunidad”, sino que al final termina siendo evaluado y explotado por adversarios. Además, esta práctica pone al gobierno (muy probablemente violando la ley) en competición directa con las compañías de tecnología de Estados Unidos, que ahora estarán forzadas a competir contra los recursos ilimitados de los contribuyentes estadounidenses. La violación de seguridad que afectó a Equifax derivó de una explotación del framework de código abierto Apache Struts.
Oracle se olvida que si el error de seguridad fue parcheado es gracias a que Apache Struts es Open Source. Por otro lado, no aplicar el parche con diligencia no es culpa del framework, sino de los mantenedores del software.
El resto del FUD lanzado por Oracle no es difícil de desmontar, así que no vamos a darle más publicidad a su postura para desincentivar el uso de Open Source en la administración estadounidense, salvo esta frase: “De hecho el uso del software Open Source está bajando rápidamente en el sector privado”. ¿En serio? Noticias diciendo lo contrario hay bastantes, pero de nuevo vemos a la empresa diciendo medias verdades, cuando no mintiendo directamente, al afirmar semejante cosa.
Podemos entender que Oracle intente defender sus intereses comerciales, pero a base de medias verdades tergiversadas y mentiras la compañía solo se gana la antipatía de la comunidad Open Source.
Fuente: MuyLinux
0 notes
escenariorock · 7 years ago
Text
SIETE MUESTRAS ESCÉNICAS DE MICRO Y MEDIANO FORMATO Y MÁS DE QUINCE ARTISTAS VISUALES SE PRESENTARÁN EN LA SEGUNDA EDICIÓN DEL FESTIVAL.
El Funka Fest, uno de los eventos culturales más importantes del puerto principal, ofrece un compilado de talentosos artistas visuales y escénicos este 22 y 23 de septiembre en la explanada del Palacio de Cristal, ubicada en el malecón 2000; que al igual que en su primera edición cuenta con el apoyo de la Empresa Pública Municipal de Turismo, Promoción Cívica y Relaciones Internacionales.
El eje de reflexión, creación y cohesión de la segunda edición del Festival de Artes Funka Fest es el siguiente: “PUNTOS DE CONVERGENCIA”, un concepto que hace referencia a la unión o fusión de varios estilos, tendencias y/o culturas. Las obras y propuestas artísticas que fueron seleccionadas abordan algunas de las acepciones, interpretaciones o reflexiones al respecto de este concepto.
  ARTES ESCÉNICAS:
Entre las obras escénicas se destacan:
“La Ilustre Desconocida” de la actriz mexicana Itzel Cuevas:
Obra inspirada en “El cuento la Isla Desconocida” de José Saramago y aborda el concepto de “puntos de convergencia” desde la perspectiva filosófica que plantea la búsqueda de un medio para alcanzar un fin determinado. Tanto en “La Ilustre Desconocida” como en el libro de Saramago, convergen los conceptos del fin y del medio, como una misma búsqueda.  
Esta muestra encarna la búsqueda del ser en el rol de una mujer que emprende un viaje con rumbo incierto, a un lugar que desconoce y que tal vez no existe de la manera en que lo prevé.
“Fragilidad” de la Compañía Teatral Antrópoli:
La obra “Fragilidad” explora una dramaturgia para el cuerpo y no para la narración, comprendiendo al cuerpo como el tiempo y espacio de la acción cuyo movimiento y relación con el entorno puede ser polisémico, en la medida que amplifica las posibilidades de sentido e interpretación que el espectador construye de la idea dramática.
“Fragilidad” es una obra inspirada en la teoría del caos en la que el espectador puede participar de un conjunto de narrativas segmentadas, enunciadas desde diferentes voces, que se complementan la una a la otra en una suerte de polifonía. En esta propuesta la segmentación no es un aislamiento de las partes, sino una convergencia donde el actor, la escenografía, el texto, el movimiento, el sonido y la luz construyen un cuerpo poético sólido pero permeable de sentidos.
“You Really Got Me Now” de Himali Singh Soin y David Trappeser.
El performance “You Really Got Me Now” narra una larga e improbable historia de amor que navega por 15 años, tres continentes y múltiples realidades inventadas.
Esta propuesta está inspirada en las entrevistas pre-nupciales del Ministerio del Interior británico para parejas extranjeras; un interrogatorio burocrático sobre la validez de una afirmación de amor a proporciones kafkianas.  Esta muestra, que debutó en Londres en el 2016 y que continúa de gira por el mundo, está compuesta por verso narrativo, solos de batería y una presentación de documentos oficiales y recuerdos íntimos que rememoran y reinventan un pasado común.
“You Really Got Me Now” aborda el tema curatorial del Funka Fest desde varias perspectivas evidentes: los medios audiovisuales y performáticos; la música y la poesía; la convergencia entre los límites geográficos de Alemania, India y Ecuador; la convergencia entre lo público y lo privado, y en última instancia, la convergencia en el sentimiento de dos corazones. En you “You Really Got Me Now” es El Amor el punto de Convergencia.
ARTES VISUALES:
Además, en el Funka Fest se exhibirá la muestra “Del Mundanal Ruido”, en la que participarán artistas visuales, nacionales y extranjeros.
A propósito de la muestra, resalta su curador Rodolfo kronfle Chambers:
“En la muestra convergen miradas que construyen sensibles contrapostales del mundo que habitamos. Las obras hilvanan un recorrido que explora diversos mapas y territorios que reinterpretan y cuestionan, desde miradas íntimas y subjetivas, imaginarios instalados en los medios y en la historia. El espectador encontrará tanto reflexiones que parten del paisaje -natural y urbano-, como elaboraciones pictóricas que coquetean conscientemente con diversos estilos y estéticas.
Las instalaciones, los videos, las fotografías, las propuestas murales e intervenciones relacionales en el espacio y con el público, compondrán una visita llena de estímulos y material para el pensamiento.”
ARTISTAS PARTICIPANTES:
-Donna Conlon y Jonathan Harker (Panamá)
-Marlon de Azambuja (Brasil)
-La suerte & Apitatán (Ecuador)
-Ricardo Bohórquez (Ecuador)
-Gabriela Cabrera (Ecuador)
-Vicente Muñoz (Ecuador)
-Luis Chenche (Ecuador)
-Gonzalo Vargas (Ecuador)
-Raymundo Valdéz (Ecuador)
-David Orbea (Ecuador)
-Daniel Chonillo (Ecuador)
-Tyrone Luna (Ecuador)
-Maureen Gubia (Ecuador)
-Oswaldo Terreros (Ecuador)
-Colectivo Gwykqll (Ecuador)
  ENTRADAS:
En el Funka Fest Las entradas han sido denominadas como en la tradición teatral: “Primera Llamada”,“Segunda Llamada” y“Última Llamada”; Las entradas en “Primera Llamada” se agotaron en menos de 24 horas post anuncio del Line Up de los artistas al festival.
  Las entradas que están disponibles son:
  SEGUNDA LLAMADA: se venderá hasta agotar stock y su costo es de $30 dólares por los dos días del festival.
ÚLTIMA LLAMADA: se venderá hasta agotar stock y su costo es de $35 dólares por los dos días del festival.
  El costo por entrada individual por día es de $20 dólares y podrán ser adquiridas en los Ticketshow a nivel nacional.
Los días del evento el costo de las entradas ascenderá a $25 dólares por día.
​LAS ARTES ESCÉNICAS Y VISUALES CONFORMAN EL CARTEL DEL FUNKA FEST SIETE MUESTRAS ESCÉNICAS DE MICRO Y MEDIANO FORMATO Y MÁS DE QUINCE ARTISTAS VISUALES SE PRESENTARÁN EN LA SEGUNDA EDICIÓN DEL FESTIVAL.
0 notes